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mercoledì 30 marzo 2011

BAUHAUS: "Oscure distorsioni soniche"

Bauhaus
Il celebre profilo stilizzato opera di Oskar Schlemmer diventò negli anni Ottanta una delle figure più rappresentative del dopo punk grazie a quattro ragazzi di Northampton che decisero di ispirarsi alla scuola d’arte tedesca della Staatliches Bauhaus per battezzare il proprio progetto artistico. Una band che debba fare male come un gruppo punk ma che penetri più in profondità. Che non si limiti a sfondare la carne come una spilla da balia, ma che si conficchi fin dentro le viscere, e lì rimanga. E infatti lì rimane, l’ aculeo dei Bauhaus, per quanti avranno la fortuna di incrociare la loro musica elettrica e scura, tenebrosa e claustrofobica.

Bela Lugosi's Dead
Il primo vagito di quella abominevole creatura esce dopo pochi mesi dalla nascita della band. Bela Lugosi‘s Dead dura, da sola, quanto 5 canzoni punk. Viene registrata in presa diretta il 26 Gennaio del 1979. E’ uno dei momenti massimi del post-punk tutto, iconograficamente e musicalmente parlando. Una plumbea e incalzante marcia elettrica su cui la voce di Peter Murphy si materializza e penetra squarciando il velo dei clangori metallici e del rantolio del basso che la tormentano, come un tetro vampiro dallo feritoia di una finestra. Il rock teatrale dei Bauhaus diventa l’avamposto della new wave meno compromessa con l’ elettronica e le macchine. Non fossero così emaciati e foderati di cipria li si vedrebbe grondare sudore sugli strumenti. Invece sono quattro vampiri di filigrana che suonano un glam rock iperamplificato figlio del Bowie più eccentrico e dell’ impassibile art-rock dei Joy Division. Il passaggio dalla Small Wonder alla 4AD è segnato da altri due singoli e dall’ uscita del primo strabiliante album.

In The Flat Field
"In the flat field" è un colosso. Un colosso macilento e tenebroso. Uno dei debutti più folgoranti della stagione post-punk inglese, immerso in una teatralità fanatica e perversa figlia diretta di icone transgeniche come Iggy Pop, David Bowie e Marc Bolan. Sono quelle, le radici del suono dei Bauhaus. Il glam perverso ed elettrico degli anni Settanta, privato dai colori e dalle pailettes. Niente piume di struzzo, niente lustrini, niente pellicce dentro i Bauhaus. Tutto è risolto nell’ essenzialità del bianco e del nero. Sagome e profili ariani che si stagliano nella controluce di lampade al neon. La musica dei Bauhaus degli esordi è un taglio nella carne, è l’ urlo primordiale di quattro uomini di Cro-Magnon perduti nella tormenta che annuncia l’ arrivo della glaciazione. Nessun riparo e nessun rifugio in questa sterminata distesa di ghiaccio. Solo la cognizione atavica di un destino ineluttabile, solo l’ urlo primigenio della carne, la sua implorazione aberrante e istintiva davanti alla virilità devastatrice della natura. Nonostante sia considerato uno dei punti nodali della musica dark, In the flat field fa storia a sè per questo suo vigore vitale. In the flat field è infatti una drammatizzazione della vita piuttosto che la rappresentazione inaridita e spenta del proprio vuoto umorale ed esistenziale tratteggiata su dischi nichilisti come Unknown Pleasure o Faith. Ciò che c’è di mortifero nella musica dei Bauhaus è piuttosto legato alla rappresentazione scenica, alla volgarizzazione mimica, alla dissimulazione mistica della morte e alla sua contestualizzazione in chiave pop (Bela Lugosi, il vampirismo, i pipistrelli) ed etica (il satanismo, l’epilessia, l’amore pagano). "In the flat field" è un disco votato all’eccesso.
Un disco che è una trappola di metallo arrugginito dentro cui si muove, battendo le ali, il vampiro Peter Murphy. Un album che vibra di una concitata frenesia convulsa (In the flat field, Dive, St. Vitus Dance) e di un enfatico tribalismo sciamanico (Double Dare, Small Talk Stinks) così come di caroselli eretici (God in an alcove, Stygmata Martyr) e di sfibranti singhiozzi da film dell’ orrore (Spy in the cab e il bellissimo e straniante crescendo della conclusiva Nerves). In the flat field è una incessante pioggia di chiodi che ti penetrano la carne. Voi, a differenza loro, siete ancora nelle vostre caverne. Scegliete se vale la pena uscire o restarvene accucciati alla vostra pelle di mammuth.



Mask
Dopo la barbarie macabra ed elettrica di "In the flat field" i Bauhaus cambiano maschera per rappresentare un’altra opera altrettanto inquieta ma sfaccettata e apparentemente irrisolta che se da un lato traghetta le spinte dark della band fin dentro l’horror dall’altro le veste di piccoli specchi per inscenare una disco music sghemba per vampiri dalle facce esangui. La cadaverica marcia funebre di Hollow Hills e la danza sintetica di Kick in the eye sono i due paradigmi di questo disturbo bipolare che sembra essersi impossessato del gruppo inglese che ha integrato alle scorie glam del debutto ripetuti ascolti di musica nera iconoclasta e inacidita come il dub, il reggae e il free jazz ma anche certa psichedelia floydiana.
Il suono del gruppo diventa elaborato, forse fin troppo concettuale rispetto alla furia elettrica degli esordi. Conserva il suo fascino sinistro e gloomy (The Passion of Lovers o The man with the X-ray eyes sono tra le migliori rappresentazioni del gotico moderno, NdLYS) ma gli cuce addosso abiti nuovi, diversi, insoliti, ambigui. Si contorce, si raggomitola, si muove all’ indietro, rallenta, si immerge nella terra come un lombrico e riemerge strisciando dalle sue viscere, si allunga, si attorciglia. "Mask" è il disco di un gruppo che sta cambiando pelle, un album dinamico e bizzarro che gioca col buio, la luce e le ombre. Con tetro rigore ma anche con grottesco senso dell’ humour (la caricatura di Of lillies and remains mal digerita da tanti ridicoli fanatici delle tenebre, NdLYS). I Bauhaus vi danno l’ occasione per ridere, anche vestiti da pipistrelli. Io non la sottovaluterei.

The Sky's gone out
"The Sky's gone out" è il disco più bislacco della tetralogia storica dei Bauhaus. Un album disomogeneo e mutevole che è soprattutto una gigantografia della teatralità gestuale e vocale che Peter Murphy ha impersonato sul palco e sullo schermo e che qui viene chiamato a reinterpretare con una enfasi quasi parossistica e surreale, raggiungendo il culmine della sua magniloquenza da musical nella maestosità plateale della lunghissima coda di Spirit.
"The Sky's gone out" incunea le tensioni elettriche e metalliche dei primi due dischi verso le derive acustiche e pinkfloydiane che troveranno ulteriore sviluppo nel disco conclusivo della loro carriera e negli esperimenti collaterali di David J. e dei Tones on Tail, sfoggiando i contorni di due anime che vivono accanto e si sfiorano senza tuttavia mai incontrarsi veramente, come succede dentro l’80% delle famiglie medie, non solo italiane. Un corridoio di un ospedale psichiatrico sul quale si aprono le porte delle camere di degenza dentro cui sono nascoste dagli occhi del mondo tutte le devianze morbose dei suoi ospiti: dagli attacchi epilettici di In the night all’ elegia funeraria di The Three Shadows pt. 2, dagli spasmi di Third Uncle (di Brian Eno) alla catalessi sensoriale di The Three Shadows pt. 1, dalle crisi di megalomania di Spirit alle crisi depressive di All we ever wanted, dalle manie di persecuzione di Silent Hedges fino alla tosse convulsiva e ai rantoli tracheali di Exquisite Corpse. "The Sky's gone out" non è tuttavia il disco incompiuto che molti hanno deciso che sia. E’ piuttosto l’album di una band in continua mutazione, perennemente insoddisfatta, perpetuamente alla ricerca di nuovi punti di equilibrio. Fatalmente attratta dalla luce e pur tuttavia destinata a brancolare nel buio. Ecco perché, quando sento parlare della leggenda dell’ uomo-falena, io so ESATTAMENTE quale sia la sua identità. "Press The Eject And Give Me The Tape" è un live uscito in questo stesso anno (1982), comprendente performance di brani tratti da "In The Flat Field" e "Mask".


Burning From The Inside
"Burning from the inside" è il disco che chiude, in diretta, la loro storia. Ed è un disco che odora di tormenta. Il resto, tutto quello che era venuto prima, dalla cassa da morto di Bela Lugosi agli inchini glam fatti a Marc Bolan e David Bowie, li avrei scoperti dopo, scorrendo a ritroso la storia di quella che allora mi pareva la band più affascinante del mondo. E devo ammettere che nei ventisette anni successivi non se ne sarebbero aggiunte molte di più. Nei Bauhaus tutto era luce fredda e accecante e tenebra profonda, immensa. Una caverna popolata da topi con le ali e dalle cui fessure penetrano coltelli di luce che ti spaccano gli occhi come lame di ghiaccio. Come quando, appena la puntina inizia a solcare il disco, il giro di basso di She‘s in parties doppiato dalla chitarra gelida di Daniel Ash, ti apre uno squarcio sul petto manco fosse una lametta intinta nell’ assenzio. L’assalto si fa ancora più crudo nel pezzo successivo, una marcia epilettica dedicata ad Antonin Artaud, profeta maledetto del Teatro della Crudeltà. Il suono è vicino a quello dei sabba valpurgici dei Banshees, una liturgia melodrammatica e pagana suonata mentre in cielo cominciano ad avverarsi le prime profezie dell’Apocalisse di Giovanni. King Volcano è invece un haiku ossianico, un canto votivo per ingraziarsi l’oracolo del Dio del fuoco. Odori forti di incenso. Piedi nudi e sonagli che picchiettano come in una danza del ventre ballata durante una veglia funebre annebbiata dall’ oppio. Una Carmina Burana araba salmodiata all’ ombra del minareto. Prima di scoprire che il muezzin si è legato una corda al collo.
Peter Murphy buca la session di Who killed Mr. Moonlight, afflitto dalla polmonite che lo terrà fuori per gran parte del lavoro. Il resto della band fa tutto da sola registrando questa malinconica canzone per piano e voce da Cortina di Ferro. Slice of life si muove morbida su quelle terse distese acustiche e vagamente pinkfloydiane che i Bauhaus hanno già cominciato a sviluppare sul disco precendente.
Anche qui c’ è un bagliore che esplode accecante e definitivo, come quello del trapasso. Honeymoon Croon è un glam lunare. Come per Antonin Artaud, riecco apparire gli uomini-lupo. Stavolta con la bava alla bocca. Kingdom's coming torna all’ amore per gli arpeggi acustici di All we ever wanted, una ballata che ti smorza il sorriso in faccia premendoti il petto con una forza crescente impercettibile ma inesorabile. Sono lingue di vento che tirano giù le ultime foglie, lasciando solo uno scheletro di legno a campeggiare nel tuo giardino. La title track è un lungo serpente di cespugli coperto di neve bianchissima. Benvenuti dentro il labirinto dell’ Overlook Hotel. Hope tiene fede al suo titolo e rompe un po’ l’ incantesimo dell’ intero lavoro lasciandoci con una canzone che ha un po’ il tenero sapore del commiato e un po’ quello propiziatorio di un Surya Namaskara. Ma i Bauhaus “bruciavano già dall’interno”. Per quanti tra noi restarono a bocca aperta a vedere esplodere questa Supernova e venire per sempre risucchiati nel loro Buco Nero. Un collasso per tutto simile al nostro. A pochi mesi dall’ uscita, i Bauhaus non esistono più. Il tempo di apparire in una famosa sequenza, in questo 1983, nel film 'vampiresco' di Tony Scott "The Hunger (Miriam si sveglia a mezzanotte") con David Bowie, Catherine Deneuve e Susan Sarandon: e nella colonna sonora, con Iggy Pop, Schubert, Ravel e Bach.


Gotham
Per quindici anni continuano a fare musica, da soli o in gruppo, lasciando riposare lo spirito dei Bauhaus nella cripta di Northampton. Qualcuno racconta che nelle notti di nebbia se ne sente il respiro per le strade della città. Poi, al diradarsi delle nebbie, ritorna nell’ immobilità del suo simulacro. Quando Batman torna a battere le ali, nel 1998, sotto di lui non ha più lo stormo di pipistrelli della Batcave ma
l’ intera Gotham City. Come è giusto che sia. Esattamente 15 anni e 4 giorni dopo l’ultimo concerto, i Bauhaus tornano a esibirsi dal vivo con la stessa identica formazione di sempre. Quando le luci si accendono sul palco dell’ Hollywood Athletic Club di Los Angeles che accoglie la prima data della reunion, quella che si materializza sul palco è una capsula del tempo. Peter Murphy, David J, Kevin Haskins e Daniel Ash quattro argonauti finiti sulla terra. Non è ancora il 2019 ma Los
Angeles, quella sera, sembra sommersa dalla stessa pioggia impenetrabile di Blade Runner. Sarà così per tutte le date del tour: 56 in tutto tra America, Europa e Giappone, tutte sold out. Tutti i vampiri sono risorti assieme a loro. E sono tutti lì ai loro gig. Diciotto tracce tratte da quattro di quei concerti finiscono dentro questo doppio, fotografando tutta la carriera del gruppo inglese: dal singolo di esordio Bela Lugosi‘s Dead/Boys fino alla supernova dark di She ‘s in parties e regalando la cover statuaria, immobile di Severance dei Dead Can Dance per la quale i Bauhaus si concedono pure il lusso di riaccendere i faretti allo iodio dello studio di registrazione. "Gotham" schiude il sepolcro dei Bauhaus per mostrarci che tutto è rimasto come prima. Nessuna suppellettile è stata sottratta. Le ceneri mortuarie sigillate, granello per granello, dentro i loro vasi di porcellana. Bauhaus are dead. Undead undead undead.

Go away white
Per il rientro discografico ufficiale occorre invece attendere altri dieci anni. I Bauhaus si ritrovano insieme, dopo un quarto di secolo, chiusi in uno studio per due settimane ad elaborare (non più di tanto, come vedremo) del nuovo materiale. Tutto in presa diretta e senza troppi ripensamenti, come una garage-band. "Go away white" frantuma però il percorso evolutivo della loro storia, partita come una versione “al neon” del glam rock, sperimentando quindi
l’uso del ritmo, della percussione e della camera d’ eco, fino ad approdare a quella sorta di torbida psichedelia floydiana che spirava tra le pieghe di Burning from the inside. Se proprio vogliamo sforzarci di riannodare dei legami con la loro discografia, diciamo che forse è Mask, a livello umorale, il riferimento più prossimo e persuasivo. Quindi i Bauhaus insolenti di Hair of the dog o Kick in the eye. A livello strumentale è il basso a regalare le emozioni migliori. Implacabile ma allo stesso tempo morbido, duttile. Le chitarre invece scelgono di farsi metallo, seguono traiettorie proprie ma sono perentorie, rigide, impassibili, nonostante l’ uso del wah wah hendrixiano. Tutta la prima parte del disco ha questa impostazione. Le cose cambiano sulla seconda parte del disco dove i toni si fanno più plumbei, grevi e soffocanti. Ma, per la prima volta, pure più tediosi. E’ una inquietudine dissimile da quella tetra e perversa cui i Bauhaus ci avevano abituato. C'è più di una eco del dark-ambient dei Dead Can Dance (evidentemente l’ effetto-Deliverance non si è ancora placato, NdLYS) su Saved ad esempio con Peter Murphy che gigioneggia (male) su uno sbiadito tappeto strumentale di campane e gelidi sintetizzatori. Le cose non migliorano nelle altre moviole enfatiche e glaciali di Mirror Remains, The Dogs ‘a vapour e Zikir (dove riaffiora però quella cappa funerea che fu già parte dei movimenti di The Three Shadows, NdLYS). Le cose migliori stranamente arrivano da un pezzo insolito come Black Stone Heart che squarcia l’ apatia e, a dispetto del titolo e del testo ('go away white' è estrapolato proprio da qui), gioca più con le luci che con le ombre. E’ il pezzo più leggero mai registrato dai Bauhaus, con tanto di motivetto fischiettato e piano guizzante. Altro pezzo che salverei è Endless Summer of the Damned, balletto marziale e teatrale alla stregua dei Virgin Prunes. Ma l’ impressione che resta, anche dopo ripetuti ascolti, è quella di abbozzi di idee promossi a canzoni senza avere l’ opportunità di venire sviluppati.

Due anni dopo, a ventisette anni da quel "Miriam si sveglia a mezzanotte" che ne aveva segnato il debutto di celluloide, Peter riappare nuovamente sul grande schermo per consegnarsi alle nuove generazioni gotiche nelle vesti di The cold one, nel terzo episodio della saga di Twilight. Solo, in una stanza fosca. Il Conte. White on white translucent black capes Back on the rack.
Qualcuno verrà a portarci via da qui, con le sue ali nere come la notte.
Franco “Lys” Dimauro

Bauhaus
Discography:
In The Flat Field (4Ad/Beggars, 1980)
Mask (Beggars, 1981)
The Sky's Gone Out (Beggars Banquet/A&M, 1982)
Press The Eject And Give Me The Tape (Atlantic, 1982)
Burning From The Inside (Beggars, 1983)
4 AD (4Ad, 1983)
The singles 1979-1983 Volume One (antologia, Beggars, 1983)
The singles 1979-1983 Volume Two (antologia, Beggars, 1985)
Swing the heartache - The BBC sessions (Beggars, 1989)
Rest in peace - The Final Concert (live, 1992)
Crackle (antologia, Beggars, 1998)
Gotham (live, Beggars, 1999)
Go Away White (Cooking Vinyl, 2008)


Singles/ EP
1979 - Bela Lugosi's Dead/Boys
1980 - Dark Entries
1980 - Terror Couple Kill Colonel
1980 - Telegram Sam
1981 - The Passion of Lovers
1982 - Kick In The Eye (Searching For Satori EP)
1982 - Searching For Satori EP
1982 - Ziggy Stardust
1982 - Lagartija Nick
1982 - Beggars Banquet
1983 - She's In Parties
1983 - The Sanity Assassin
2007 - The fona's song



Bela Lugosi's Dead (from 'The Hunger', Tony Scott movie 1983, with Susan Sarandon and David Bowie)
Boys

Nerves
Double Dare
Terror Couple Kill Colonels
Rosegarden Full Of Sores
Hollow Hills
The Passion Of lovers
Kick in The Eye
The Three Shadows Pt.3
Lagartija Nick
Slice Of Life
King Volcano
All We Ever Wanted
Telegram Sam
Ziggy Stardust
Black Stone Heart

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