Music Box inaugura una nuova rubrica: DISCHI STORICI, curata da Gianluca Merlin, conduttore radiofonico e grosso appassionato di rock. Tre dischi alla volta da un passato più o meno prossimo verranno presi in esame e raccontati sinteticamente. Spero sarà un'occasione ed uno stimolo, soprattutto per i più giovani, per riscoprire importanti ma anche inedite pagine rock affinché non cadano in un ingiusto dimenticatoio.
Sicuramente integrerò le scelte di Gianluca Merlin con quelli che io ritengo dischi 'indimenticabili', la rubrica comunque é aperta a contributi. (Pasquale 'Wally' Boffoli)
DEEP PURPLE (1969/Spitfire Rec.)-
Deep Purple. So già che sgranerete gli occhi e la domanda sarà scontata...ma con tutti gli album dei Deep Purple proprio questo ci vai a proporre?. Sì, semplicemente perchè quelli della Mark II li conoscono tutti. Della Mark I, invece, si conosce poco. Questo, il terzo e ultimo disco della line up con Rod Evans voce e Nick Simper al basso è forse il più maturo per songwriting e idee. A partire da una copertina in cui degli sprovveduti Purple sono stati inseriti da un collage in un dipinto di Jeronimus Bosch, "il giardino delle delizie", scelta alquanto discutibile ma di effetto, si ha la sensazione di una certa classicità, cosa ribadita in alcuni brani, dove le redini sono ben salde in mano a Jon Lord.
Chasing Shadow è un brano fulminante, dove una serie di percussioni esotiche fanno da crescendo ad un ritmo rock incalzante intriso di psichedelia e canali di bilanciamento che saltano da una parte all'altra dell'orecchio generando stordimento, seguita da Blind, un rock in stile classicheggiante dove si sente il clavicembalo e sembra di essere alla corte di Re Sole.
Nastri contrari per The Painter, brano tra i più rock del disco, dove troviamo il grande dualismo Blackmore-Lord venire fuori negli assoli, cosa ripresa più avanti nella Purple Mark II. Finale a suite con April, preludio a Concerto for Group and orchestra e sfogo classico di Lord, che orchestra anche gli archi. Da riscoprire...
SMALL FACES: OGDEN'S NUT GONE FLAKE (1968/Originals)
Il manifesto psichedelico degli Small Faces. A partire dalla meravigliosa copertina che in versione 33 giri era tonda e riproduceva una scatola di tabacco, è un concentrato di brani meravigliosi uniti per metà da una trama concettuale tenuta assieme dal comico inglese Staney Unwin. Pesante accento cockney per tutto il disco e un singolo nella top ten inglese, quella Lazy Sunday che 10 anni dopo ci ritornerà costringendo gli Small Faces a riunirsi anche se per solo 2 anni.
Tutte le sfumature musicali possibili si trovano in questo disco : rock (Afterglow of your love, Rollin' Over, Song of a Baker), psichedelia (Ogden's nut gone flake, The Journey) folk (The Hungry Intruder, Mad John) e atmosfere da Music hall inglese (Happydays Toy Town)
Purtroppo sarà anche il canto del cigno della prima fase degli Small Faces. Quasi imposibilitati a portare dal vivo questo disco e divisi da contrasti interni tra i due leader, la band si scinde in 2 tronconi con da una parte l'inquieto Steve Marriott negli Humble Pie e il resto della band che arruola Ron Wood e Rod Stewart per ribattezzarsi Faces...ma queste sono 2 altre storie.....
NIRVANA : ALL OF US (1968/Edsel)
20 anni prima che tre ragazzi di Seattle avessero idea di chiamarsi così, un'altra band ha pensato bene di adottare questo nome, in altro genere musicale più vicino al significato mistico - psichedelico. Alla base di questa band le due menti e membri stabili della formazione , Patrick Campbell- Lyons e Alex Spyropulos. Insieme, radunano musicisti di studio per realizzare il secondo lavoro della band attingendo ancora una volta dalla pesante influenza dei Beatles di Sgt. Pepper, ma anche dai Traffic di Mr Fantasy. C'è la sensazione che i due oltre ad essersi ascoltati i dischi tantissimo se li siano anche fumati o tirati su a mo' di polverina... Arrangiamenti curati, uso di archi, pianoforte, poca chitarra, tanti cori e qualche fiato.
L'iniziale Rainbow Chaser è la canzone che è rimasta nella storia, con quel phasing che pervade la musica, ma sono da citare anche All of us per il ritornello accattivante , Trapeze con il pianoforte predominante e c'è anche spazio per una canzoncina per bambini come Everybody Loves The Clown, dove i bambini sono anche protagonisti al canto.
Tante idee, molta creatività e brani che conquistano anche al primo ascolto. Copertina stile Ben Hur, forse a testimoniare la magniloquenza della musica.
GIANLUCA MERLIN
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giovedì 24 giugno 2010
martedì 22 giugno 2010
THE FROWNING CLOUDS: Intervista a ZAK OLSEN by Franco 'Lys' Dimauro
Difficile sopportare l’ enfasi con cui il mercato musicale “pilota” le proprie uscite discografiche vestendole con la buffa e patetica immagine di evento storico.
Qualche mese fa ad esempio sono stato invitato dalla Warner per un preascolto del nuovo album dei Baustelle (quelli che scrivono le canzoni per Irene Grandi) da un bunker sotterraneo in Viale Mazzini 112, con la clausola che, oltre a portare i respiratori artificiali, le recensioni sarebbero state “embargate” a data imposta dalla stessa Warner. Capite? Di queste pacchianate ci nutrono, per illuderci che siamo i prescelti tra i Profeti. Naturalmente ho declinato l’ invito, non sono abbastanza disciplinato per stare chiuso in una camera con altri idioti che prendono appunti per poi dire cose che avrebbero detto comunque.
Mi sono invece chiuso in casa ad ascoltare qualcosa che mi salvasse da questo ciarpame. E mi sono imbattuto nei Frowning Clouds.
Li avevo già incrociati un paio di volte, a dire il vero. La prima sul # 2 di Antipodean Screams, la seconda con un singolo uscito per una piccola label spagnola che adesso stamperà la versione in vinile di questo loro album di debutto.
Che è un disco meravigliosamente fuori dal tempo.
Un disco che nessuno ascolterà, probabilmente.
E che invece, se siete delle infoiate ninfomani che sbrodolano per i primi Stones, per i Pretty Things di Get The Picture?, per i Manfred Mann del biennio ‘64/’65, per il beat storpio dei Beat Merchants, per i Crawdaddys, per il Diddley maniaco di Bring it to Jerome, per i primi debosciati Wylde Mammoths o per l’ angst giovanile dei Gravedigger Five dovreste ascoltare assolutamente.
Lontano dall’ eversione sonora di molte garage bands attuali come quelle del giro In The Red, i Clouds giocano tutto su un Sixties sound maniacale, schietto, ingenuo e selvaggio. Abbiamo incontrato per voi Zak Olsen, leader della giovanissima band australiana per prepararvi all’ ascolto di Listen Closelier, il loro disco appena licenziato dalla Off The Hip.
LYS: Ciao Zak. Dalle foto e dalla forza espressiva che emerge da Listen Closelier immagino siate giovanissimi. Qual’ è l’ età media della band?
Zak: Ciao Lys. L’ età media è di 19 anni, visto che il più giovane tra noi ha 18 anni e il più “anziano” 20.
LYS: Ovviamente troppo giovani per aver vissuto realmente gli anni Sessanta e anche fuori tempo massimo per il revival neo-garage di venti anni dopo. Come è sbocciato dunque l’ interesse per quel tipo di suono?
Zak: Dal nostro amore per la musica degli anni Sessanta e dalla nostra voglia di riprodurla.
L’ abbiamo ascoltata in maniera così radicale che, nonostante non la si sia studiata e sviscerata tecnicamente, è come sgorgata fuori dalle nostre mani. Ecco perché considero il nostro approccio realmente di natura primitiva, istintiva.
Credo si avverta in ogni canzone che facciamo.
Fondamentalmente non ci siamo mai ispirati al revival degli anni Ottanta. Abbiamo cercato di essere più autentici. Non ci interessava appiccicare quei suoni fuzz, quelle urla esasperate e tutte quelle cose di cui quei dischi erano pieni. Ci interessava esplorare altri territori.
E malgrado molta gente continui a considerarci degli imitatori dei Kinks o dei primi Rolling Stones e nonostante per noi non sia affatto un problema, crediamo che in noi si possa trovare qualcosa di diverso.
LYS: Immagino per voi ci siano state delle band attuali che vi hanno fatto da guida in questa riscoperta o vi abbiano invogliato a scoprire quel suono di cui sembrate innamorati…
Zak: Be’, si. Amiamo un sacco i Brian Jonestown Massacre e gli Oh Sees ad esempio. Entrambe le band sono esempi di come si possa fare musica ispirata agli anni Sessanta usando risorse moderne a proprio vantaggio.
Di come si possa, in sintesi, trarre qualcosa di nuovo dal vecchio e viceversa.
Anche se l’ ispirazione vera è stata quella venuta fuori dall’ ascolto di band come Kinks, Pretty Things e Stones che ci attraggono come approccio, come concezione stessa di suono.
Avevano questo sound immacolato che certamente ci ha influenzato anche se noi siamo più proiettati verso un’ attitudine di tipo garage/psichedelico.
Ogni cosa che includa suoni o evochi qualcosa che venga dal passato ci interessa in qualche modo.
LYS: Perché i vostri coetanei dovrebbero ascoltare questa merda piuttosto che la roba ultramoderna che il mercato musicale spinge e riempie i club di tutto il mondo?
Zak: Hai ragione Lys, in effetti la musica elettronica e tutta quella roba lì è abbastanza alla moda per fare soldi in maniera rapida e anche per spenderli in modo altrettanto veloce.
Ma noi suoniamo musica senza tempo e non ce ne frega granchè di quanto suoni vecchia o stupida per i ragazzini di oggi. Vorremmo dire loro però che tutto è ciclico.
Le musiche sono state esplorate e riciclate infinite volte.
Ma noi troviamo che sia un sacco meglio della politica, per esempio.
Certamente molto più erotica ed artistica.
Vedi, secondo me è importante capire da dove hanno origine le cose.
Nel nostro caso potrebbe essere il ragtime o la musica delle jugband. Sono cose che ognuno dovrebbe ascoltare per capire da dove un sacco di musica moderna ha avuto origine.
Penso che molte band underground degli anni 60 meritassero molta molta più visibilità di quanto sia stata loro concessa.
Prendi gli Elevators per esempio.
Loro sono stati molto probabilmente i primi a coniare il termine psichedelico.
LYS: Nonostante il vostro sound non sembri avere molte analogie col folk rock dei Love, la vostra copertina mi ha riportato immediatamente alla mente quella di Da Capo. È un omaggio deliberato?
Zak: Molti ce l’ hanno fatto notare ma ti assicuro che abbiamo solo fatto qualche scatto vicino ad un albero e infine ne abbiamo scelta una. Ma non è stata una cosa intenzionale, voluta o ricercata nonostante ci piaccia un sacco il suono delle band folk rock come i Love e ci si auguri che la foto piaccia comunque ad Arthur Lee.
LYS: Che mi dici delle altre band in cui sei coinvolto, i selvaggi Bonniwells e i diabolici Last Gyspys?
Zak: Sfortunatamente i Last Gyspsies non esistono più, Lys.
Abbiamo fatto il nostro ultimo concerto tre settimane fa, mentre con i Bonniwells continuiamo a divertirci un sacco. Non scrivo musica per loro, fondamentalmente mi sono unito a loro con l’ unico scopo di imparare a suonare la batteria. Ma la cosa è andata molto oltre e sono molto felice sia andata così.
LYS: Avete in previsione qualche data in Italia o in Europa per quest’ anno?
Zak: Speriamo di venire il prossimo anno. Stiamo già mettendo i soldi da parte.
LYS: Per concludere, chi pensate vincerà la coppa del mondo quest’ anno?
Zak: Non me ne importa granchè. Ma spero la squadra migliore. Forse i Frowning Clouds. Ahahahah.
Franco “Lys” Dimauro
http://www.myspace.com/thefrowningclouds
http://www.messandnoise.com/releases/2000599
http://www.youtube.com/watch?v=D-Cv792abW4
domenica 20 giugno 2010
THE STOOGES: FUN HOUSE (Elektra-1970) by Franco 'Lys' Dimauro
Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
Benvenuti all’ Inferno.
Benvenuti nel regno degli empi, nella rappresentazione gotica del mondo moderno.
Benvenuti alle porte di Fun House.
Fun House non è un comune disco di musica rock. Fun House è IL disco rock.
E’ un disco di una demenza paurosa e di una pericolosità inaudita.
E’ il disco che suona più forte di tutto quello che c’ è stato prima di lui e di larga parte di quello che gli verrà dopo.
Marcio, decadente, scomposto, rumoroso, meccanico, malato, disperato, idiota, massacrante, spossante, sfatto, annichilente.
Fun House è lo schianto definitivo degli anni Sessanta e del suo sogno di far diventare la Terra un gigante Chupa Chups di amore e caramello.
Come i Velvet a New York, Iggy e gli Stooges ci preparano all’ angoscia.
L’ amore sognato si schianta con l’ odio reale. E fa un rumore terrificante.
E’ quel rumore, quel frastuono di lamiere contorte e quel puzzo di carni bruciate che gli Stooges registrano dentro gli Elektra Sound Recorders studio, sulla Ciniega Boulevard di Los Angeles.
Gli Stooges la chiamano la casa del divertimento ma dentro non ride nessuno.
Sono i quindici giorni in cui si costruisce il disco rock definitivo.
Don Gallucci sistema dei tappeti persiani per insonorizzare lo studio e obbligarlo a resistere al torrente di watt che lo investiranno da lì a breve, poi esce, lasciando entrare le belve. Tutte, Iggy e Steven McKay compresi.
Si sdraiano sui tappeti, fanno qualche foto, iniziano a mettersi a loro agio con alcol e droghe, quindi attaccano gli strumenti, sistemano i volumi fino a saturare l’ aria e simulano il loro agghiacciante spettacolo.
Non registrano le loro parti un po’ alla volta, come era accaduto per il disco d’ esordio. Tutto viene registrato come un live-show, nell’ ordine che poi le tracce occuperanno sul disco.
Dall’ altro lato del vetro Don Gallucci ha raggiunto Brain Ross-Myring cercando di infilare quell’ onda di energia animale dentro le bobine che girano sul gigantesco 8 tracce della 3M che occupa lo studio.
Sono davanti alla più potente rappresentazione del raccapriccio umano mai raffigurata. Gli Stooges sono animali chiusi dentro una gabbia di vetro ma fanno paura lo stesso.
Iggy grugnisce sul microfono, sputa sui vetri, delira, vomita schiuma di birra sui tappeti persiani.
Gli altri dietro disegnano la sagoma del rumore che hanno in testa.
Dentro la stanza girano erba, cocaina peruviana, psylocibina, anfetamine, eroina.
Il rumore prende forme sempre più malate fino a sfociare nel deragliante incubo free di L.A. Blues dove il jazz e il noise fanno per la prima volta l’ amore.
La band ha deciso di imburrarsi nell’ acido prima di partire per l’ ultimo viaggio.
Il delirio è assoluto. Tutto trema, dentro gli studi Elektra.
Dalle mensole cade qualche nastro, si stacca qualche lastra di lana di roccia, le assi di legno fanno rumore di ossa spezzate.
Gallucci comincia ad avere paura davvero, decide di lasciare la band lì dentro
anche dopo aver abbassato i cursori audio poco prima del quinto minuto,
finchè non avranno smaltito gli effetti del loro stesso dolore. Dietro il vetro non vede più delle bestie ma dei mostri abominevoli che si mordono a sangue, l’ uno avventandosi al collo o alla schiena dell’ altro. In un abbraccio di morte e dolore.
Dopo questo, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse: "Ho sete".
Vi era lì un vaso pieno d'aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l'aceto, Egli disse: "Tutto è compiuto!". E, chinato il capo, spirò.
Franco “Lys” Dimauro
http://www.iggyandthestoogesmusic.com/
THE FLESHTONES - It's Super Rock Time! The I.R.S. Years 1980-1985 (Raven - 2010) by Franco 'Lys' Dimauro
I Fleshtones, Cristo.
Gli psicopatici restauratori del rock.
Anzi, del Super Rock. Così Peter Zaremba e Keith Streng amavano chiamare il loro special-blend dove infila(va)no surf music, rock ‘n roll, soul, garage, R ‘n B, beat e frat-rock. La cosa più tamarra si potesse suonare mentre la televisione si popolava di mostri come Dead or Alive, Wham! o Bronski Beat.
Proprio quegli anni in cui i Fleshtones giravano per gli uffici di Miles Copeland mano nella mano con Alan Vega e Marty Thau e facendosi largo nei locali newyorkesi affollati dai punkettoni che ciondolavano tra i cessi e il palco su cui loro improvvisavano i loro set conditi di organo Farfisa, quando nessuno si ricordava più cosa fosse.
Sono gli anni raccontati da questa raccolta che pesca da tutto il catalogo I.R.S.: le due enormi ostriche Roman Gods (praticamente per intero, fatta eccezione per lo strumentale Chinese Kitchen, NdLYS) e Hexbreaker!, i due live parigini, le rarità di Living Legends, i singoli.
Praticamente una festa da portare in tasca. Apribile come quei tavolini in pvc da picnic.
Perché questo erano i Fleshtones, in quella stretta cerniera tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: una perfetta macchina da divertimento, isolatasi dal macchinoso e cervellotico funky spastico dei Talking Heads così come dalla strampalata psichedelia dei Television, dalle canzoni da cartoon dei Ramones e dal pop gommoso dei Blondie che infestano la loro città in quegli stessi anni.
Loro sono talmente elementari e freschi che non puoi non mettere su una band dopo averli visti suonare.
Sono una bavosa che striscia lungo le cartine stradali dell’ America carteriana e reaganiana e, ovunque passi, lascia una schiuma viscida sulla quale i pochi appassionati del frenetico suono delle Nuggets-bands finiscono per rimanere appiccicati.
Strisciano su Athens e nascono i R.E.M..
Passano su Los Angeles e nascono i Dream Syndicate.
In pochi anni vengono tirate su le scene del Paisley Underground, del grass-roots, del garage revival: la febbre del ritorno al passato invade l’ America tutta.
Ma loro restano fuori da tutto.
Loro sono una scena a sé.
Loro sono i Fleshtones, eterni Peter Pan del rock ‘n roll.
Gli unici cui avremmo mai concesso di far suonare i Kingsmen come i Village People perdonando loro una cosa eticamente immonda come Right side of a good thing.
E ballandoci pure sopra come scimmie in calore.
God bless The Fleshtones.
Franco 'Lys' Dimauro
http://www.fleshtones.org/