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sabato 19 febbraio 2011

THE PRETTY THINGS 1964 - 1971: "Talkin' about the Good Times"

1964 - 1967: The Blues and Rhythm & Blues Years

Ascolto Walking down the street, uno dei brani meno conosciuti, cui segue I need somebody con i fiati che un pò disturbano: quella voce però é inconfondibile e fa tutta la differenza; i due brani si trovano su “Electric Banana” e sembrano outtakes di “Emotions” il terzo album dei favolosi Pretty Things, il meno amato dal gruppo proprio per l’intromissione di fiati ed orchestrazione, decisione aliena alla banda. Stiamo parlando di uno dei capitoli meno noti e chiari nella storia di un gruppo che é sempre stato trattato come una band minore e troppo spesso liquidato come una copia dei Rolling Stones. “Emotions” é anche stato il primo disco che conobbi dei Pretties a metá anni 80, periodo in cui scoprivo il Garage americano ed i gruppi inglesi che lo ispirarono, e chi meglio dei Pretty Things, autentici punks del panorama R&B britannico. Avevo ascoltato molto poco di loro, erano altri tempi, peró ben presto arrivó una raccolta della Edsel in mio aiuto, raccogliendo il meglio del primissimo periodo, carico di R&B selvaggio e di nuovo quella voce: Phil May sembrava un gatto selvatico!
Le similitudini con i Rolling Stones non sono solo invenzioni della stampa che li spacciavano come una versione più pericolosa degli Stones: il gruppo ha infatti le sue origini nella zona di Dartford, Kent a circa 25 km a sud-est di Londra, luogo di nascita di Phil May e Dick Taylor, che poi é come dire Mick and Keith, ambedue nati a Dartford! Come molti giovani inglesi dei primi anni 60 scoprono e si innamorano del blues e presto formeranno il loro proprio gruppo, il cui nome viene preso da una canzone di Bo Diddley, Pretty Thing. Non tarderá molto il contratto con l’etichetta Fontana, grazie a Jimmy Duncan, manager del gruppo ed autore del loro primo singolo.
Rosalyn non fu mai superato in intensitá, un attacco sonico che colpisce immediatamente, un brano frenetico, possiamo solo immaginare le facce sconvolte degli spettatori che videro nel 1964 quell’apparizione a Ready Steady Go!, purtroppo non sopravvissuta al tempo.
I Rolling Stones con il loro aspetto trasandato in un’epoca dove l’uniforme era la regola giá avevano infastidito e scandalizzato: con i Pretty Things si passò davvero il segno; come era possibile che un gruppo di degenerati suonasse una musica cosí selvaggia sfidando occhi ed orecchie di tutta la gioventú e della popolazione in generale dell'amata Inghilterra? Piú sporchi degli Stones, Phil May con i capelli piú lunghi mai visti, Viv Prince un batterista scatenato il cui unico rivale era Keith Moon, o sarebbe meglio dire erede? Eh sí, perché quando Keith si fece conoscere il nostro Viv già ne aveva combinate delle belle, rimanendo a piedi in Nuova Zelanda nel 1965 dopo una lite con il comandante che ordinó che scendesse dall’aereo che riportava il gruppo a casa; era stato un tour talmente riuscito che valse ai Pretties il premio di divieto di ritorno in quel paese!
Rosalyn fu un buon debutto peró con il successivo Don’t Bring Me Down raggiunsero per la prima ed unica volta il n. 10 della Top Ten britannica nel 1964. Il primo album omonimo uscito nel marzo 1965, debitore soprattutto al grande Bo Diddley (“We thank you Bo for the name...”) ma anche Jimmy Reed e Chuck Berry, contiene dei brani blues di grandissimo calibro (non avevano rivali in tal senso) ed un paio di originali nella stessa vena.
Si racconta che quando il boss della Fontana si presentó durante le registrazioni, se ne andó dopo mezz’ora lamentandosi che non sarebbe rimasto lí con quel gruppo di animali! Varie le apparizioni televisive in Europa, fortunatamente arrivate fino a noi grazie a youtube. Incredibile per esempio l’apporto degli archivi televisivi Francesi che ci hanno regalato innumerevoli filmati storici di vari artisti dell’epoca. In Olanda partecipano al Blokker Festival (First Show) (Second Show) dove i fans impazziscono per il gruppo; assolutamente imperdibili i relativi filmati che qui vi offriamo, fedeli testimoni dell’energia del gruppo nella sua formazione originale.
Anche negli Stati Uniti grazie al celebre programma Shindig! i Pretty Things fanno conoscere ai giovani americani il loro blues e rhythm & blues bastardizzati con Big city ed il successivo 45, Honey I need (incluso nel 1° LP), che uscito all’inizio del 1965 consolida la reputazione del gruppo, nonostante non riesca ad entrare nella Top Ten per poco. Nel dicembre del 1965 pubblicano lo stupendo “Get The Picture?”. Viv Prince é presente solo in parte e salvo qualche avventura musicale posteriore di lui non si saprá quasi piú niente.
You don’t believe me apre il disco, un brano meravigioso che mostra i Pretties in una nuova luce, il momento in cui forse si avvicinano di piú al folk-rock dei Byrds; il pezzo porta anche la firma di un noto session man, un certo Jimmy Page che peró non suona nel disco. In questo secondo album c’é molta piú varietà musicale, compresa un’apertura al soul con covers di Cry To Me e I had a dream ed una strizzata d’occhio al folk-rock con London Town. Ovviamente non mancano pezzi nel vecchio stile Pretty Things come Buzz the Jerk o la stessa Get the Picture?.
Alla batteria a partire da questo momento siede Skip Alan che si dimostra un vero Pretty, inquieto al pari il suo predecessore, come dimostra un filmato del 1967 in cui il gruppo esegue Children e la inedita Reincarnation.
Questa formazione, che oltre al giá citato Phil May alla voce e Skip comprende gli enigmatici John Stax al basso, Brian Pendleton alla ritmica ed il fondamentale Dick Taylor alla solista (bassista negli Stones embrionali!) avanza poderosamente senza freni, regalandoci tra la fine del ‘65 e l’inizio del ’66 singoli esplosivi come Midnight to Six Man, Come See Me ed un paio di Eps tra cui On Film che presenta sonoritá e temi che anticipano la psichedelia con Can’t stand the Pain e Lsd (quest’ultima si suppone basata sul sistema monetario inglese pre-decimale, composta e giá registrata dai Manfred Mann). Dopo un 1965 caratterizzato da vicende varie (anche scandali) oltre che da registrazioni e dischi, un 1966 foriero di cambiamenti importanti ma in realtá deludente musicalmente: terminerà con all'attivo un solo singolo, tra l’altro una cover dei Kinks, A house in the country. Del 1966 sono varie apparizioni televisive tra le quali una alla tv svedese Popside. Sarebbe giustificato pensare ad un gruppo al punto di implodere; di lí a poco Stax e Pendleton se ne andranno e si chiude un ciclo. Arrivano Jon Povey e Wally Waller ex Fenmen, un gruppo dalla destrezza vocale invidiabile: essa si aggiungerá al suono dei nuovi Pretty Things cosí come la loro abilitá compositiva e musicale, essendo entrambi infatti in grado di suonare differenti strumenti. Jon passerá da batterista dei Fenmen a principalmente tastierista e Wally, amico d’infanzia di Phil May, imbraccerà per la prima volta in vita sua il basso. Per prendere atto dei risultati positivi di tutti questi cambiamenti dovremmo aspettare ancora un pó: intanto all’inizio del 1967 esce “Emotions”, senz’altro un album di transizione, non privo di brani molto belli come Growing in my mind e The Sun, nei quali l’orchestrazione anche se imposta produce buoni risultati.
Nello stesso periodo iniziano a registrare brani per la libreria musicale DeWolfe, non tanto destinati al mercato discografico quanto per essere usati in colonne sonore, programmi radio o televisivi. Verranno poi ri-pubblicati a dieci anni di distanza: i tre dischi originali erano “Electric Banana”,“More Electric Banana” e “Even More Electric Banana”; recentemente ripubblicati in raccolte dedicate a quel periodo come “The Electric Banana Blows your mind”.
Sono di quest’epoca alcuni dei migliori pezzi mai scritti dai nostri eroi, soprattutto intorno al 1968-69 (Alexander, It’ll never be me,
Eagle’s Son, Blow your Mind) e grazie alla loro apparizione nel film “What’s good for the goose” li possiamo ammirare in gloriosi colori psichedelici!


1968 - 1971: The Psychedelic Years

Ma torniamo indietro un’attimo ed alla discografia ufficiale. Per quanto ami il gruppo degli esordi, personalmente penso che l’apice si raggiunse quando liberatisi dell’etichetta Fontana, i nuovi Pretties ricaricati e pieni d’energie si tuffarono completamente nell’oceano psichedelico, lasciandosi trasportare e cavalcando con sicurezza le onde psichedeliche. Lo dimostrano con lo stupefacente Defecting Grey, uscito per la EMI Columbia. Dopo una versione demo di circa 8 minuti si arriva ad accorciarlo e si pubblica infine con una durata di 4:30 minuti, nonostante la pressione della casa discografica di non andare oltre i tipici 3 minuti di un singolo. In questa giostra psichedelica si alternano momenti tranquilli ad improvvise esplosioni di fuzz, con una strumentazione ampliata a mellotron e sitar: il tutto stordì non pochi all’epoca.
Il retro Mr Evasion conferma l’ottimo momento del gruppo. Di questo periodo di rinascimento é la stupenda e inedita Turn my head, giuntaci grazie a sessions registrate per programmi radio della BBC. Si apre il 1968 con il loro magnifico singolo Talkin' about the good times/Walking thru my dreams un vero e proprio gioiello della corona Psichedelica inglese. Dopo vari mesi, finalmente nel 1968 esce il capolavoro “S.F. Sorrow”,: importa poco che questo disco sia in realtá la prima opera-Rock, divorato da Pete Townsend e fonte d’ispirazione per il piú celebre “Tommy”. Per seguire la narrazione e rendersi conto meglio della storia di Sebastian F. Sorrow, all’interno della copertina apribile disegnata da Phil May, si trovano i testi delle canzoni unite da una trama che lega un brano all’altro. Il gruppo arrivó con quest’album a vette mai piú raggiunte ed oggi é giustamente e finalmente considerato alla pari di dischi come “Sgt.Pepper” e “Piper At The Gates Of Dawn”.
Fondamentale sará Norman Smith produttore residente degli studi Abbey Road, famoso per aver lavorato con i primissimi Floyds e considerato come un’altro Pretty Thing dalla stessa banda che ne riconosce la volontá ed abilitá di sviluppare e scoprire nuove sonoritá. Molti sono i brani da estrapolare ma davvero é uno di quei dischi da ascoltare tutto di un fiato! Tra i miei preferiti The Journey/I see you/Well of Destiny. Durante le registrazioni Skip se ne va e subentra Twink dei leggendari Tomorrow e ancor prima dei Fairies che registrarono una manciata di singoli tra i quali Get Yourself Home, registrato anche dai Pretties come possibile seguito di Don’t bring me down, poi scartato per essere troppo simile. Le connessioni con i Pretty Things sembrerebbero forti, peró in realtá la relazione non é buona e dura poco. Twink é comunque un personaggio, come dimostra Private Sorrow dove lo possiamo ammirare come mimo, avendo introdotto la parte teatrale del suo show giá collaudata con i Tomorrow.
Seguono le apparizioni in diverse parti d’Europa, con buona accoglienza in cittá come Parigi e Amsterdam. Ricorda Phil May come a Roma, nel Piper, il pubblico rimase stupefatto, a bocca aperta ancor prima che una sola nota fosse suonata. Per fortuna nel corso del concerto i Pretty Things riuscirono a vincere l’incredulitá della gente.
Possiamo goderci Death e Baron Saturday, ambedue da "S.F. Sorrow", cosí come le videro i telespettatori in Francia all’epoca. Un pó come per il 1966, il 1969 non ci regala molto ed il gruppo soffre il ricambio piú grande avvenuto fino ad allora: Dick Taylor abbandona e da lí a poco produrrá il debutto degli Hawkwind nel 1970. Una perdita importante che si nota immediatamente nel suono di “Parachute, l’ultimo grande disco del gruppo. Votato disco dell’anno dalla rivista Rolling Stone, va al passo con i tempi ed alla psichedelia subentra l’hard-rock, ed anche qui il gruppo eccelle. Proveniente dalla Edgar Broughton Band, alla chitarra solista si sistema Victor Unitt che durerá giusto il tempo di registrare l’album mentre ritorna alla batteria Skip Alan. Tra i brani piú duri Cries from the Midnight Circus e Sickle Clowns.
C’é anche abbondante spazio per momenti piú delicati come She’s a Lover (la mia favorita) e Grass.
L’album é stupendo, in alcuni momenti ricorda anche i Beatles di “Abbey Road” (In the Square). Di questo periodo sono anche alcune ottime canzoni mai pubblicate come Send my loving e Spring ora disponibili nell'ottimo doppio cd “The BBC Sessions".Seguiranno un paio di buoni singoli usciti nel 1971 con Pete Tolson invece di Vic Unitt, come October 26/Cold Stone e Stone Hearted Mama, con i quali si conclude il miglior momento dei Pretty Things che attraverso fasi diverse continueranno a suonare ed incidere sino ai giorni nostri. Tutti gli album citati sono disponibili in CD ad ottimi prezzi con brani extra, includendo vari singoli e brani usciti in origine solo su EPs, piú qualche sorpresa.

Aldo Reali

Albums originali:
The Pretty Things (1965, Fontana/Original Masters))
Get the Picture (1965, Fontana/Snapper)
Emotions (1967, Fontana/Snapper)
S.F. Sorrow (1968, Emi Columbia/Original Masters)
Parachute (1970, Harvest/Demon)

Raccolte consigliate (2CD):
The Rhythm & Blues Years (2001, Recall))
The Psychedelic Years (2002, Snapper/Recall))
The BBC Sessions (2003, Repertoire)

venerdì 18 febbraio 2011

THE CURE story, seconda parte: "Pornography", "The Top", "The Head on the Door", "Kiss Me Kiss Me Kiss Me", "Disintegration", "Wish", "Wild Mood Swings"


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Pornography (1982, Elektra)
Nel 1982 i Cure sono tre corpi che precipitano nel baratro.
"Pornography" è il suono di quei tre corpi che affondano dentro quella voragine.
L’ oltraggio pornografico cui allude il titolo non ha niente a che fare con la carnalità che spesso si associa all’ idea stessa della pornografia ma con l’ idea ugualmente oscena ed immorale della decomposizione, della privazione, del disfacimento corporale, sensitivo, passionale. "Pornography" è un prisma nero che inghiotte ogni fascio di luce. Nessun colore vive qui dentro. Nessuna forma di vita si muove, in questo orizzonte appiattito ed immutabile, dentro questo sarcofago dove siamo stati seppelliti, dentro questa camera iperbarica senza nessun pertugio ma in cui soffia una perenne folata di aria gelida e nella quale risuonano i tamburi dei soldatini di latta che sono venuti a farci da guardia, in questa implacabile immobilità che ci avvinghia come un enorme tentacolo, in questo stato comatoso di atrofismo respiratorio. Il canto di Robert Smith è diventato una supplica (One Hundred Years). Il suono dei Cure il crepitio di un legno seccato dal sole. I tamburi le scudisciate di un cappio su una lastra di zinco. Qui è il supplizio, qui il tormento. Come dei Napoleoni davanti al Generale Inverno ci stringiamo nei nostri spolverini, lasciando le impronte sulla neve. (The Hanging Garden)

Japanese Whispers (1984, Sire) - The Top (1984, Sire)
L’ uscita dal tunnel nero della trilogia scura dei primi anni Ottanta ha per i Cure la luce abbagliante e stroboscopica della svolta dance e tenerona dei singoli pubblicati tra l’ Ottobre del 1982 e il Novembre dell’ anno successivo frutto delle strategie di mercato del deus-ex-machina della Fiction Chris Parry e della crisi artistica seguita alla rottura con Simon Gallup culminata con la cancellazione del 14 Explicit Moments Tour e il temporaneo split della band.
I tre singoli, poi raccolti nel mini "Japanese Whispers" (1984, Sire), sono paradossalmente mille miglia distanti dai climi torbidi e raggelanti degli album precendenti, sono tre atti dissacratori e profanatori che come tale vengono accolti dai vecchi fans del gruppo e che invece sono i camuffamenti necessari a Smith e ai suoi soci per scappare via dagli angusti tunnel della depressione. Sono proprio canzoni sornione come The Lovecats e marce per sintetizzatori come The Walk e Let’ s go to bed a nascondere le bombole di ossigeno che servono alla band per non affondare nelle acque nere di Faith e Pornography. L’ empasse artistico di cui Robert approfitta per stringere i suoi legami artistici e confrontare le affinità elettive con i Banshees viene scongiurato grazie al rientro in formazione di Porl Thompson, uscito fuori dalla band poco prima dell’ esordio discografico.
Porl ha uno stile cervellotico e nervoso che ad inizio carriera cozza con i progetti di Robert Smith di una band dallo stile spartano e che invece adesso sono in perfetta sintonia con le nuove ambizioni del leader, messe in fila indiana dentro "The Top" (1984, Sire) in maniera scombinata e disomogenea: strappi hard-rock (Shake Dog Shake, Give me it), mielose canzoni da sofà (Dressing Up), oblique serenate per le ricercate reginette del gotico (Piggy in the mirror), accenni di musica mediterranea e di bolero (Bird Mad Girl), marce per soldatini di ghisa (The Empty World), eccentriche canzoni da terra incantata (la genialata di The Caterpillar e il nonsense di Bananafishbones), pesanti macigni di dolcezza (la lunga e cadenzata The Top), oscure discese tra le rocce di tufo infestate dai pipistrelli (Wailing Wall), "The Top" è disco babelico e caotico, in parte ripudiato da Smith che lo catalogherà come il suo disco più brutto, specchio di un periodo dove la confusione anarchica sembra essersi impossessata della band scombinandone gli equilibri. Eppure è questo suo tormento, questa pressione esogena che schiaccia dall’ alto e preme dall’ interno a renderlo un tassello importante nella lunghissima storia della band inglese. Queste sue mille sfaccettature tracceranno le coordinate per i Cure che verranno di lì a poco, rifondando il suono della band su nuovi pilastri. Per niente malfermi, per niente insicuri. Soltanto, per capriccio, costruiti su un terreno disomogeneo, così che il prossimo solaio possa venire tutto storto. The Top è un disco di architettura creativa. Chi lo biasima è solo un pessimo geometra.

The Head on the Door (1985, Elektra)
"The head on the door", nel 1985, mette a fuoco il linguaggio polimorfo che i Cure masticano dopo i bagni nelle acque gelide dei primi anni Ottanta. L’ obiettivo, raggiunto a livello concettuale ma non del tutto sul piano qualitativo, è quello di realizzare un disco dove nessun pezzo suoni come quello che lo precede o che lo segue e suona un po’ come l’ appendice estetica a The Top, alimentato dalla consapevolezza ormai raggiunta di poter scrivere con disinvoltura canzoni pop coperte da zucchero caramellato (In between days, A night like this, Six different ways) e di potersi concedere allo stesso tempo il lusso di piccoli abissi di depressione (Sinking) o di dare sfogo alle eccentriche
claustrofobie del leader (Close to me, Push) contando sull’ appoggio di schiere di fans risucchiate dal vortice esistenziale dalle catarsi emotive rovesciate loro addosso negli anni e che ora si fanno sempre più numerose e sempre più voraci e per le quali sono già pronte raccolte, riletture, concerti sempre più gremiti e tonnellate di poster e foto su ogni rivista di tendenza e su ogni giornaletto di musica, dal più idiota al più rinomato, che circoli in Europa. I Cure sono una band di successo, nonostante tutto. Anche qui dentro, come sul disco precedente, risuona spesso l’ eco di musiche mediterranee o orientali (il flamenco di The Blood o i piccoli ideogrammi giapponesi di Kyoto Song) che Robert associa ai suoi sbalzi d’ umore, dovuti in questo periodo al tentativo di tirarsi fuori dall’ alcolismo cronico che lo accompagna dall’ adolescenza. I richiami etnici sono pertanto sfruttati a livello cromoterapico, sfuggendo alla pericolosa trappola della musica etnica.
Singolare notare come, nonostante "The head on the door" sia il primo (e l’ unico, NdLYS) album dei Cure in cui le canzoni siano accreditate al solo Smith, in realtà sia il primo disco dove l’ apporto creativo degli altri componenti (l’ alter-ego smithiano Simon Gallup rientrato nei ranghi ufficialmente, Lol Tolhurst, Porl Thompson, Boris Williams) è invece tangibile e ufficialmente riconosciuto da Robert.
Ognuno porta con sè un colore, un pennello, uno schizzo per dipingere gli incubi di Robert di colori così intensi da farli diventare un attraente parco giochi, senza permettere ad alcuno di chiedersi se durante la discesa lungo lo scivolo di Sinking quella che Robert sta intonando sia una filastrocca per bambini o una disperata richiesta di aiuto.

Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me (1987, Rhino)
Quando esce "Kiss me, kiss me, kiss me" i Cure sono già stati dati per spacciati almeno un paio di volte. E invece nel Maggio del 1987, dopo essere passati indenni dalle onde grevi del post-punk più claustrofobico e aver fatto sciogliere il cerone ai darkettini facendoli ballare al ritmo frivolo di Let ‘s go to bed o The upstairs room, eccoli arrivare con quello che le cronache riportano come il primo doppio della loro carriera.
In verità l’ idea di “doppio”, commercialmente parlando, cominciava proprio allora a vacillare, tant’ è che la versione su cd fu evirata di Hey You pur di costringerlo su un solo supporto. Ma all’ epoca si azzardò addirittura una TRIPLA versione in vinile che custodisco ancora in casa, come uno scrigno di caramelle alla ciliegia.
Ora che il mercato ha invertito tendenza e le case discografiche hanno capito che il pubblico si divide in due categorie: i bacchettoni che scaricano da Internet e i bacchettoni che comprano l’ originale purchè gli si giustifichi l’ investimento con un disco bonus, quasi sempre pieno di schifezze (su le mani quanti hanno ascoltato i bonus sulle ristampe Cooking Vinyl dei Gun Club, avanti NdLYS), eccolo ridiventato doppio. Pure nel prezzo. Ma non è questo quello che conta di Kiss me.
Ciò che conta è che i Cure tornano ad essere un gruppo con tante cose da dire. Hanno scritto circa venticinque pezzi. Diciotto finiscono su questo disco. Un disco complesso, sfaccettato. Che è un po’ la summa di tutto quello che i Cure hanno dato fino a quel momento. Romanticismo e dolcezza certo. Come tra i fiocchi di zucchero filato di Catch o The perfect girl, che si muovono sul solco tracciato da Dressing Up e Piggy in the mirror. E anche il cipiglio rock ostentato in passato da Shake Dog Shake che qui torna a scuotersi tra le contorsioni di Shiver and shake.
Ma pure l’ inquietudine dark ammantata di psichedelia nera che era sgorgata dalle vene tagliuzzate di Faith e Pornography e che qui fluisce libera sui capolavori del disco: l’ ombrosa If only tonight we could sleep, l’ onirica Snakepit, il ralenti mortifero di Like Cockatoos, lo straziante sentimentalismo di A thousand hours. E poi il gusto kitsch per il ritmo funky e il jazz da big band che Robert Smith ha già esplorato in passato e che torna qui con la prepotenza irritante di pezzi come Why can ‘t I be you e Hot Hot Hot!.
Ma il tessuto connettivo di "Kiss me" è comunque quello di un disco fortemente drammatico. Sin da subito, dal lunghissimo incipit di The Kiss, si avverte quest’ esigenza di non rimanere schiacciati dal tempo ma di cercare di dominarne la sfuggevolezza, di godere del suo inesorabile fluire.
Come quando spacchi una clessidra e giochi a fare scivolare tra le dita la sua sottile sabbia rosa, lasciando che ti solletichi tra le falangi e il metacarpo. E’ una vendetta che Robert Smith rimugina da tempo ovvero da quando il budget limitato per la registrazione di 17 Seconds aveva ridotto il lungo strumentale di The final sound ad un banale e striminzito siparietto di 52 secondi. Una vendetta consumata fredda, al momento opportuno. Ovvero quando la band si sente nuovamente forte, compatta, imbattibile. Presuntuosa, sin dalla scelta della copertina.
Scompare il rigore del bianco e nero e la necessità estetica delle figure sfocate, dilatate, allungate e storte di qualche vecchia cover. L’ immagine è adesso immediata e diretta. Affidata all’ audacia del rosso sgargiante e carnale delle labbra sbavate di Robert Smith in cui è affogata. Due strisce di carne che chiedono amore senza ostentarlo. Serrate e impassibili, malgrado l’ esplicita richiesta del titolo. "Kiss me, kiss me, kiss me" è un disco smanioso, inquieto, che porta l’ impronta di tutti. Fortemente collettivo. Come una seduta terapeutica di gruppo. Ognuno fa i conti coi propri fantasmi, esorcizzandone le forme e i ricordi prima di prepararsi nuovamente ad affrontarli. Succederà due anni dopo con Disintegration, prima di mutare nuovamente, per l’ ennesima volta, pelle e fondotinta.

Disintegration (1989, Elektra)
A suggello di un decennio di cambiamenti, defezioni, ritorni, cadute abissali e rimonte improvvise e inaspettate, i Cure pubblicano "Disintegration", autentico Paese delle Meraviglie dello Smith-pensiero. L’ accesso ai trent’ anni mette Robert Smith davanti ai suoi vecchi fantasmi, riaccendendo di luce fosforescente i vecchi ectoplasmi che ingombrano i corridoi della sua testa. Album completamente immerso nel romanticismo onirico e visionario del leader, Disintegration riannoda quindi i legami col periodo più scuro della band inglese, ovviamente rivisto secondo le nuove ambizioni e il nuovo assetto artistico dei Cure che sono ora un gruppo col doppio di elementi. Un’ autentica orchestra a dare colore e forma ai sogni di Robert Smith che in questo periodo persegue il sogno Wilsoniano del suono perfetto, sovrapponendo i suoni strato su strato, come in una sinfonia decadente dedicata ad un secolo che inizia a sciogliersi come mascara sotto le lacrime.
Una cattedrale gotica che si erge sulle rovine di Faith e Pornography e sopra i forzieri ricolmi dei tesori pop di un disco come The head on the door (i claustrofobici sospiri di Lullaby, già sperimentati in Close to me, le prelibatezze sognanti di Love Song, i gorghi acquatici di Prayers for rain figli del lento sprofondare di Sinking) e delle ambiziose architetture di Kiss me Kiss me Kiss me (le pioggie di cristalli nella lunga intro di Plainsong, la polvere di stelle che piove dalla coda di Fascination Street, il canto di The Perfect Girl letteralmente soffocato nel rantolo di Homesick) portandosi dietro un po’ di quel dolore antico (Last Dance, The same deep water as you) e risputandolo fuori con un’ intensità che si credeva impossibile da vivere con tale impeto di disperazione.
"Disintegration" è l’ arte di cantare il dolore accarezzandone le piume come un uccello ferito.

Wish(1992, Elektra)
Agli inizi degli anni Novanta, i Cure passano dalla cassa per riscuotere. La consacrazione come band di successo viene legittimata dalle vendite milionarie di "Wish", secondo album doppio nella discografia del gruppo britannico, climaticamente vicino tanto alle ambientazioni gotiche e dolcemente plumbee di Disintegration quanto al glitter romantico e decadente di Kiss me Kiss me Kiss me, i due dischi che hanno ridefinito e rimesso a fuoco il suono dei Cure dopo la confusione dei medi anni Ottanta. I goffi tentativi di vestire la disperazione di Robert Smith con i colori sgargianti di orsetti di peluche e le vernici fosforescenti già messi al bando con Disintegration sono ulteriormente soffocati dal taglio introspettivo di questo nuovo album, stipato di lunghe cavalcate psichedeliche colme di presagi di mortale sventura e di inquietanti segni di annichilimento (Open, From the edge of the deep green sea, End) così come di estenuanti tuffi in apnea nell’ immobilità esasperante delle angosciose partiture di Trust, Apart o To wish impossibile things che custodiscono il plesso dentro cui si muove il vero kundalini di un disco che affida ai singoli High, Friday I ‘m in love e A letter to Elise il compito di circuire l’ ascoltatore con gli occhioni languidi ma spossati di Robert Smith che finge ancora di leccarsi le ferite come un micio mentre finge di fare le fusa. E’ il tentativo di Robert di ingannare se stesso, la sua coperta di Linus, le sue unghie da masticare per placare un vuoto addominale che potrebbe essere scambiato per fame, sono i suoi pasti fuori orario per giustificare un gonfiore triste quanto quello di Elvis al Capodanno di Pittsburgh. Il tour che ne segue, nonostante raduni platee da guinness, segna una nuova fase di crisi all’ interno del gruppo, culminando con l’ abbandono di Porl Thompson e Boris Williams e le rogne legali con Lol Tolhurst che incattiviscono Robert Smith (che tenterà di anticipare l’ annunciato scioglimento della band annunciato per il 2000 e che poi verrà invece di fatto totalmente sconfessato, NdLYS) e sfaldano la coesione del gruppo, finendo per fare di "Wish" il testamento spirituale ed artistico dei Cure, il suo monumento funebre.

Wild Mood Swings (1996, Fiction/Elektra)
Dopo la polvere di stelle che ha ricoperto i Cure durante i tour di Disintegration e Wish, Robert Smith vede annegare i suoi sogni. La band si sbriciola nuovamente e Robert Smith cade in una crisi creativa quasi irreversibile tanto che "Wild Mood Swings", al di là dei suoi bassissimi meriti artistici, è il secondo ed ultimo disco che i Cure incidono durante tutto il loro secondo decennio di vita. Ed è il punto più basso fin qui toccato dalla band inglese. L’ estro di Robert Smith è visibilmente appannato e il tentativo di “alleggerire” il suono della band vestendolo di impensabili vestiti sudamericani (la rumba del singolo The 13th), di orpelli operistici (This is a lie) o di sgraziate mediocrità pop (Return, Strange Attraction, Round & Round & Round) non riesce a sollevare le sorti di un disco assortito ma banale come gli scaffali di un negozio in franchising.

Bloodflowers (2000, Fiction/EastWest)
All’ alba del ventunesimo secolo, per ripulirsi la coscienza da un disco infame come Wild Mood Swings Robert concede ai suoi Cure, proprio alla vigilia dello scioglimento annunciato da anni, un’ ulteriore possibilità. Un’ occasione di riscatto che riporti il sound della band dentro le coordinate del suono decadente che le è proprio. "Bloodflowers" viene pertanto presentato come un’ ipotetico vertice di un triangolo ai cui apici stanno "Pornography" e "Disintegration", i dischi più umorali della storia della band, tanto che tutti e tre gli album vengono riproposti in sequenza durante un memorabile show al Berlin Tempodrom nel Novembre del 2002. In effetti in questo undicesimo album i Cure richiudono le imposte lasciate inavvertitamente aperte sul disco precedente e lasciano passare solo sottili fasci di luce anche se mancano i toni claustrofobici di Pornography così come il fascino gotico di Disintegration. Climaticamente accostabile ai due fratelli maggiori, "Bloodflowers" ha tuttavia un tono più dimesso, quasi essenziale e solitario, pur non rinunciando alle lunghe introduzioni strumentali che da "Kiss me, kiss me, kiss me" in avanti saranno uno dei tratti distintivi dei Cure.
Tornano ancora, senza che fossero mai andate via, le paranoie di Robert Smith espresse ancora una volta nell’ ossessionante trilogia catartica Cold-Hold-Old. Tuttavia Bloodflowers non scioglie le remore sulla salute creativa dei Cure lasciandosi apprezzare più per il clima “familiare” che lascia traspirare che per la reale consistenza delle canzoni che anche stavolta finiscono malgrado tutto per non farsi ricordare. Ma, ancora una volta, a dispetto dei suicidi e degli scioglimenti annunciati, Bloodflowers non è la ghirlanda con cui coprire la bara dei Cure. (The Last Day of Summer, Watching Me Fall)

The Cure (2004, Geffen)
Nel 2004 infatti esce un disco che segna un nuovo battesimo. Nessun titolo, disegni infantili che colorano tutto il booklet, nuova etichetta, nuovo produttore. Nuove spinte emotive, anche. Perché ovunque Robert volge le orecchie, sente il suono dei suoi Cure, sotto i falsi nomi di Editors, Interpol, Rapture e decide di rimettersi in gioco. "The Cure" azzarda senza eccessive forzature nel tentativo di rinnovare il suono della band, adattandolo alle esigenze di un pubblico che richiede un pizzico di ferocia in più. Il sound spoglio e intimista del disco precedente lascia il posto a una esplosione controllata di suoni metallici ben guidati dalla mano di Ross Robinson la cui impronta pre-apocalittica, seppur mitigata da quella dello stesso Robert, si avverte in pezzi come Lost, Labyrinth, The promise, Us or them. (Going Nowhere)

4.13 Dream (2008, Geffen)
Dopo l’ ormai abituale pausa quadriennale e l’ ennesimo rientro in formazione dell’ ormai calvissimo Porl Thompson, i Cure pubblicano il loro nuovo album, tredicesimo nella cronologia discografica della band e tredicesimo nell’ ossessione numerologica che ne avvolge il calendario progettuale (l’ uscita del disco era stata programmata per il 13 Settembre dell’ anno, preceduto da una serie di singoli pubblicati al 13 di ogni mese, NdLYS) che tuttavia si scontrerà con i piani della loro casa discografica affondando ogni velleità concettuale di un disco che invece è costruito attorno ad un totale vuoto d’ ispirazione che lo svuota di ogni catarsi emotiva, strutturalmente concepito per essere la prova più rock-oriented della loro storia.
"4:13 Dream" è un disco dove la magia è totalmente evaporata lasciando solo il suo catorcio. Il prodotto di un gruppo che ha prosciugato il suo calamaio e si affanna a voler intingere la sua penna in un vasetto dove l’ inchiostro si è ormai cristallizzato in piccole gemme di onice che non lasciano impronta, pur nella speranza che It's Over non sia il titolo del salmo con cui dovremo lasciare questa cattedrale gotica, alla fine di questa cerimonia.
Franco “Lys” Dimauro


CureOfficialWebsite


prima parte della CURE story:  First Part

giovedì 17 febbraio 2011

VINCENT CRANE & ATOMIC ROOSTER : Tra lo splendore e il buio.

Serpente nero
che vivi in un buco nero
dove non entra il sole.
Serpente nero
che abiti in una casa oscura
dove non entra mai il sole.
(Black Snake – Vincent Crane)





The Crazy World of Arthur Brown

In principio fu la follia.
La follia si chiamava Arthur Brown, un leader, un capostipite, il primo esempio (1968) di teatralità abbinata al rock, un carattere difficile, rissoso, contestatore, anticonformista e rivoluzionario che gli costerà alcuni problemi con la giustizia e gli farà affibbiare la qualifica di pazzo furioso; qualifica di cui egli si approprierà fieramente, al punto di titolare la sua prima band ed il conseguente unico album omonimo The crazy world of Arthur Brown.
E Brown il folle è un ottimo cantante con un appeal vocale che spazia da un vocione simil-Chris Farlowe (alfiere del nascente british blues) alle asperità acutizzanti di un Ian Gillan sulla sedia elettrica.
Quell’unico album del 1968 prodotto da Kit Lambert (The Who) su intercessione di un fan sfegatato come Pete Townshend contiene una dozzina di brani che svariano dal pop rock più orecchiabile, a momenti orchestrali, da feroci rhythmn and blues con sezione fiati, fino a qualche cover (James Brown e Screamin’ jay Hawkins) e a un’interessante mini-mini suite da far invidia a Frank Zappa. C’è però un brano trainante pubblicato anche come singolo che mette tutti d’accordo, (se non altro il pubblico che lo acquista a vagonate), che si chiama Fire e che l’immaginifico Arthur Brown canta (anche in italiano) indossando lunghe tuniche sgargianti, con il volto dipinto e addirittura, cosa che lo rende conosciuto al mondo, con una sorta di elmo trasparente sulla testa all’interno del quale arde un autentico fuoco fiammeggiante. A farsi notare però, non solo in questo hit davvero popolare, ma nell’intero album, oltre alla testa infuocata del leader, sono le cascate iridescenti di un organo Hammond 'lesliezzato' quanto basta per produrre slavine di accordi stridenti e onde sonore sfavillanti. Il suonatore di quell’organo si chiama Vincent Crane; è un ragazzo fragile di nervi, sofferente di repentini cambiamenti d’umore e di frequenti stati depressivi, il più forte dei quali, proprio dopo l’uscita dell’album, lo porta ad abbandonare il gruppo di Arthur Brown proprio nel suo momento migliore.
A questo punto, a sottolineare l’importanza di Crane nell’economia della band, The crazy world... non ha più ragione di esistere, il carismatico leader si dedicherà con alterne fortune, ma mai troppo esaltanti, alla creazione di altre bands (Kingdom Come la più importante) e altre collaborazioni senza mai raggiungere i fasti del suo “pazzo mondo”.

Atomic Rooster

Vincent Crane, dopo una pausa di riflessione e un ricovero psichiatrico, si associa al giovanissimo batterista che suonava con lui e Brown che si chiama Carl Palmer e dopo aver ingaggiato lo sconosciuto bassista, flautista e cantante Nick Graham, forma il primo trio della storia del rock con l’organo protagonista: Atomic Rooster. Il primo, trascurato ma non trascurabile, album esce nel 1970. Il disco, omonimo del gruppo ma col titolo scritto curiosamente con tre O nella parola 'rooster' contiene alcune gemme organistiche di assoluto valore. Crane non ha la tecnica di Keith Emerson o di Rick Wackeman ma ha un gusto sopraffino negli assoli debordanti e un “suono” che si rifà più a certi organisti dell’area jazz come Jimmy Smith; inoltre ha un’anima blues sotterranea che a volte torna alla luce in quella sua musica difficilmente definibile e che mai lo sarà, che non è pop, non è hard e nemmeno progressive come noi lo conosciamo, come dimostrano, la blueseggiante cover Broken Wing (di Grun e Jerome scippata al repetorio di John Mayall) o il delicato strumentale S.L.Y. arricchito dal flauto di Graham. Quest’ultimo non è un grande cantante, anzi è uno dei limiti di questa band e di questo disco che comunque per le trame avvolgenti organistiche è caldamente consigliabile a chiunque ami le tastiere rimanendo anche a distanza di tutti questi anni un gran bel sentire.
A battere il ferro finché è caldo, (anzi, i tasti roventi), il secondo album esce ancora nello stesso anno e fa cambiare drasticamente rotta all’instabile Vincent Crane (i Rooster sono e saranno sempre una sua, altrettanto instabile, creatura). Intanto sono successe alcune cose: le sirene di un successo planetario hanno attirato Carl Palmer verso altri due nomi non ancora troppo conosciuti ma che hanno fatto cose molto belle con i rispettivi gruppi in cui suonavano; Keith Emerson proveniente dagli ottimi Nice e Greg Lake transfuga dai superlativi King Crimson. Il trio produrrà gli sfracelli che sappiamo e a Vincent Crane non resterà che reclutare lo sconosciuto ma bravissimo batterista Paul Hammond, licenziare Nick Graham facendo a meno del basso che suonerà lui stesso con la pedaliera dell’Hammond e ingaggiare per la prima volta una chitarra solista nel nome di John Ducann (poi anche solo Cann) che ha una non trascurabile vena hard e psichedelica proveniente dagli Andromeda (autori di un solo bellissimo album) e che se la cava anche a cantare.
"Death walks behind you" sposa le tematiche dark tanto in voga all’epoca, anche se la musica non lo dà molto a sentire se non nel brano omonimo che apre il disco con i cupi accordi di un pianoforte sepolcrale. 7 streets è un classico pezzo hard dal riff micidiale mentre Gershatzer e Vug sono due sfolgoranti strumentali dove Crane e Cann danno il meglio di loro stessi. E’comunque il brano più commerciale a far conoscere il gruppo a livello internazionale: Tomorrow night è quasi una leggera marcetta a ritmo di samba rivestita da orpelli rock dalla cadenza orecchiabile e indimenticabile che non esce più dalla testa ed entra nei primi posti delle classifiche. Se ne consiglia l’ascolto nella versione del singolo diversa ma soprattutto più “tosta” rispetto a quella sull’album, rintracciabile in un’ottima antologia pubblicata nel 1991 dall’oscura etichetta Objet Enterprise Ltd. (Sleeping For Years)
Parallelamente esce un altro singolo Devil’s answer a firma John Cann che consegue un successo ancora più eclatante e che ritroveremo come bonus track nell’edizione in cd dell’album del 1971 "In hearing of". Quest’ultimo è il disco più maturo e unitario finora pubblicato da Crane, anche se il leader nella sua discontinuità emotiva e artistica, tra un ricovero psichiatrico e l’altro, relega il bravo John Cann al solo ruolo di chitarrista e assume Pete French come cantante solista. French ha un timbro vocale molto simile a quello di Rory Gallagher, lo straordinario chitarrista irlandese a cui, leggende metropolitane non suffragate da nessuna prova, attribuiscono una collaborazione proprio con Vincent Crane agli esordi di carriera. Al di là delle leggende "In hearing of" resta comunque una delle prove più belle di Crane & Co., dall’iniziale e pianistica Break through alla splendida e progressive Decision/Indecision. John Cann firma come al solito i brani più hard e Crane scrive e canta con voce esilissima a là Wyatt, la spendida ballata dagli umori canterburiani Black Snake, che, se si può leggere come una metafora della sua malattia nervosa, (il serpente nero che vive in un buco nero, in una casa oscura dove non entra mai il sole) questa viene nello stesso album ridicolizzata con intelligente ironia, almeno nel titolo A spoonful of bromide helps the pulse rate go down, con riferimento alle cure psichiatriche a cui Crane è sottoposto, una bellissima e travolgente cavalcata strumentale. Da segnalare anche la bella copertina sul cui fronte è disegnata un’elegante vecchietta che ascolta qualcosa da un vetusto cornetto acustico ficcato nell’orecchio, nel retro della cover la vegliarda sta fuggendo spaventata buttando via il cornetto quasi avesse ascoltato il diavolo, e, aprendo il centro-copertina l’immagine rimanda ancora alla vecchietta che fugge in lontananza mentre dalla tromba del cornetto in primo piano emergono le figure degli Atomic Rooster.
Ma se il precedente era un disco piuttosto compatto e unitario, il successivo "Made in England" del 1972 è talmente variegato e composito da non essere né vino né birra. Vincent Crane in preda alla sua ormai nota ansietà emotiva scompiglia nuovamente le carte e in questo nuovo album i Rooster sono totalmente un altro gruppo. Se ne vanno tutti: (volontariamente o allontanati?) Paul Hammond, John Cann, e Pete French che andrà a formare i buoni Cactus e vengono rimpiazzati dallo sconosciuto chitarrista Steve Bolton, dal batterista Ric Parnell (fans del prog italico vi dice niente questo nome?), e, forse memore degli istrionosmi gigioneschi vocali del vecchio sodale Arthur Brown che tanto assomigliavano a quelli di Chris Farlowe, Crane inaspettatamente assume proprio quest’ultimo cantante che lascia i Colosseum per unirsi ai galletti atomici. Nel primo brano dell’album appare persino un bassista ‘vero’ e il trio delle origini e ora un quintetto. E "Made in England" è davvero un album con troppa carne al fuoco; il nostro Vincenzino preferito sembra un pesce che annaspi in una melma fangosa di suoni e colori che non si confanno alla dinamica Rooster. Il brano Time is my life contempla oltre il vocione stentoreo e sgraziato di Farlowe una sezione fiati e un quartetto d’archi e poco può fare il prelibato solismo del tastierista per risollevarne le sorti. Crane, oltre alla svolta data dalla nuova formazione, ne dà un’altra prettamente musicale abbandonando parzialmente l’Hammond per dedicarsi principalmente al pianoforte. Per la prima volta appare un inutile sintetizzatore propagatore di effettacci senza ragione di esistere nel finale di All in the Satan's name. Ric Parnell scrive e canta mediocremente Little bit of inner air, Space cowboy scritta dal chitarrista Bolton è registrata dal vivo con una chitarra slide quasi country, in People we can’t trust Crane plagia se stesso ricopiando pari pari l’incipit della ormai lontana e mitica Tomorrow night senza raggiungerne il valore benché il brano sia impreziosito da un delizioso assolo di piano elettrico jazz e la finale Close your eyes è uno spiritual che si può immaginare sbraitato in una chiesa del profondo sud degli USA da una torma di neri fedeli invasati. Paradossalmente il brano più bello dell’album Satan's wheel, una buona saga roosteriana di quasi sette minuti è ascoltabile solo nella versione in cd essendo un brano scartato incomprensibilmente all’epoca e recuperato come bonus track dalla Repertoire negli anni novanta. Peccato; perché quando le unghie di Crane graffiano i tasti la classe viene fuori ed è ancora un bel sentire il pianismo lirico o l’organo multicolore del confuso Vincent viaggiare per le vie conosciute nei precedenti album e che invece in questa maionese impazzita, poiché gli ingredienti non si amalgano, si perdono in arrangiamenti pretenziosi e in una confusione di base del leader, forse ancora una volta legata al suo stato mentale, che limitano questo album assolutamente transitivo.
E conoscendo ormai l’incostante volubilità di Crane stupisce quasi, scoprire, come nel successivo "Nice n’ greasy" del 1973, il cambiamento di formazione sia semplicemente minimo. Se ne va infatti l’evanescente chitarrista Bolton e subentra tale Johnny Mandala uno che invece si fa sentire e che invece di prendere l’ascensore dell’inconsistenza chitarristica del suo predecessore, fa le scale sul manico dello strumento come chitarrismo jazz comanda, anche perché Mandala in questo caso è il nome d’arte di un eccelso chitarrista che si chiama in realtà John Goodsall e che ritroveremo al fianco di almeno una cinquantina di famosi artisti nel tempo a venire ( per brevità citiamo solo Brand X, John Martyn, Bill Bruford, Nona Hendrix, Phil Collins, Jeff Beck).
E la tripletta iniziale dell’album fa ben sperare in un salto di qualità anche se i fans del gruppo sono ancora una volta più confusi dello stesso Vincent Crane nell’ascoltare ancora un’altra musica. All across the country è un bluesaccio splendido con tutti i crismi, con assoli di Crane e Mandala e con Farlowe che ritorna nella casa natìa che è quella in cui si trova più a suo agio. Un brano che meriterebbe di entrare negli annali e in ogni antologia di blues inglese. Il successivo brano Save me è un robusto rhythm n’soul con sezione fiati sbraitato da par suo da un Chris Farlowe in stato di grazia/sgraziata e se a qualcuno sembrerà di averlo già sentito non avrà torto essendo una nuova versione di Friday the 13th, magnifico brano di Crane che apriva già il primo album degli Atomic Rooster.
Voodoo in you è una splendida cover di un poco conosciuto brano dei Ton Ton Macoute rallentato e dilatato rispetto all’originale con uno strepitoso assolo di chitarra di Mandala. Purtroppo la successiva Moods abbassa leggermente i toni essendo uno strumentale ‘all the Crane' di solo pianoforte un po’ fine a se stesso e se Vincenzino (come lo chiamano affettuosamente i fans italiani) nel precedente album usava già parzialmente lo strumento che lo ha reso famoso, in questa nuova opera lo accantona quasi definitivamente a favore del piano. Gli altri brani del disco sono purtroppo ordinaria amministrazione senza infamia e senza lode con inserti funk, melodie ancora blueseggianti e soul che sconcertano i fans di vecchia data e con un strumentale che si fa notare per un ruffiano ritmo a là Santana sposato inconsapevolmente con un ballabile da colonna sonora da film italiano (Umiliani, Ortolani, Piccioni) comunque molto piacevole e tutto a base di Hammond (finalmente l’organo!). "Nice n’ greasy" è un disco comunque una spanna superiore al precedente anche se il superamento non era poi così difficile.
A questo punto succedono ancora un po’ di cose: gli ultimi album non hanno ottenuto il successo sperato, Crane amareggiato e debole di carattere si butta a capofitto nel gorgo delle droghe pesanti e di tutto ciò che lo possa stordire, peggiorando il suo stato di salute mentale e i Rooster si sciolgono; Ric Parnell se ne parte per l’Italia dove troverà conforto ma non il grande successo nei Nova dell’ex Osanna Elio D’Anna e poi nei New Trolls. Passano alcuni anni, escono ben tre antologie a tappare i buchi dell’assenza discografica; per tentare di uscire dal buco nero dove vive il serpente nero che gli sta divorando la mente Crane si riunisce al vecchio sodale Arthur Brown per un album che passerà praticamente inosservato, finché nel 1980 in un barlume di sanità mentale il nostro eroe maledetto ripristina la sigla Atomic Rooster per un album dal titolo omonimo che ritrova John Cann alla chitarra e un nuovo batterista (ancora!) di nome Preston Heyman che verrà poi inaspettatamente sostituito dal vivo dal mitico Ginger Baker. Il nuovo disco dei galletti atomici anche questa volta non vale un chicchirichì anche se alcuni brani non sfigurano affatto, come la rockeggiante Future shock o la buona prova di Watch out-Reaching out, ma non basta, l’album non ottiene alcun successo e Crane ricade nella spirale della depressione.
E bisogna aspettare il 1983 per ascoltare una nuova e ultima prova degli Atomic Rooster. La malattia e le droghe concedono un’altra pausa al tastierista e questi si butta con impegno alla realizzazione di "Headline news". Nel disco c’è ancora un’altra musica: non c’è hard rock, non c’è il prog, non c’è il blues ma ci sono una manciata di ottime canzoni spruzzate dell’elettronica imperante in quegli anni. E nonostante la critica storca il naso, l’album è buono; la forma canzone è breve, semplice e risaputa ma i brani sono piacevoli, arrangiati in modo parco e senza orpelli. La sigla Atomic Rooster è un omaggio al passato di Crane che ancora una volta non vuole dimenticare i suoi trascorsi anche se "Headline news" può considerarsi un disco solista. Per l’ennesima e ultima volta la formazione è rimaneggiata; John Cann se ne va ancora una volta e ritorna da figliol prodigo dopo undici anni il batterista Paul Hammond. Vincent Crane scrive tutti i brani e se li canta egli stesso, l’uso del pianoforte è contenuto, il sinth è ripetitivo a mò di certa elettronica anni ottanta, i chitarristi sono addirittura tre e tra due emeriti sconosciuti spicca il nome di David Gilmour. Questo album è quanto di più lontano si possa immaginare da chi ha amato i Rooster dei primi anni settanta eppure quando Crane parte con le svisate dell’organo come nella bellissima Machine o come nella variegata Carnival, un groppo alla gola ci assale e ci conforta per il futuro.Una serenità apparente sembra avvolgere Vincenzino supportato dal rapporto sentimentale e artistico con l’intraprendente moglie Jean (jean.cheesman@atomic-rooster.com) che sembra risollevarlo dal baratro della maledizione e per lei Crane scrive la bellissima suite di ventidue minuti per solo piano e voce Taro Rota che uscirà postuma sulla splendida antologia "The devil hits back" curata da John Cann che contiene alcune perle inedite di assoluto valore e una pregevole versione di Tomorrow night dove Crane suona solo il pianoforte prodigandosi in un magnifico assolo.
Serenità apparente si diceva, ed è proprio così: "Headline News" sarà l’ultimo album di Vincent Crane e della sigla Atomic Rooster. Il nostro folle e sfortunato amico nel 1985 si aggrega inaspettatamente, lui vecchio e inveterato hippy, come tastierista ai new wavers Dexys Midnight Runners suonando sia dal vivo che sul loro album più famoso e di successo "Don’t stand me down".
La cosa non dura: in seguito a una nuova fortissima crisi depressiva della sua tormentata vita psichica da sempre sottoposta a continui combattimenti e a oscillazioni interiori, Vincent Crane decide di togliersi la vita il giorno di San Valentino del 1989 all’età di quarantasei anni.
Cosa resta oggi di quell’uomo che quel giorno decise di incontrare quella morte che da sempre camminava dietro di lui come aveva profetizzato fin dal 1971 col titolo del suo album più bello e più famoso? Restano un pugno di dischi frammentari altalenanti tra lo splendore e il buio ma sempre permeati dalla sincerità di un uomo fragile e spezzettato come la sua musica tra la gioia e il dolore. Restano le leggende che lo dipingono come un artista maledetto, volubile, stronzo, ladro, drogato e bugiardo. Restano gli aneddoti quali la vomitata sgorgata e catapultata direttamente sulle sue mani e sulla tastiera dell’Hammond durante un eroinico assolo live. Resta la fuga nel bel mezzo di una tournèè italiana quando Crane abbandona il gruppo e se ne torna in Inghilterra portandosi via l’incasso dei vari concerti per tornare dai suoi spacciatori preferiti. Restano le foto che lo ritraggono con lo sguardo dolce di uomo sfortunato, come quella sulla cover interna del disco coi Dexys Midnight Runners dove quel magnifico suonatore di tastiere non rinuncia al suo look di sempre rinunciando invece di tagliarsi i lunghissimi capelli e ad apparire sulla copertina principale dove gli altri sono tutti ingiaccati, incravattati e pulitini, mentre lui è sbracato e in perfetta tenuta da hippy fuori tempo massimo.
Restano alcune interessanti e complete antologie (il doppio cd "In the satan name" oppure "Devils answer’s") ricche di live, versioni alternate e inediti tra le quali segnalo in particolare quella già citata, splendida e piuttosto oscura ("The Collection") uscita nel 1991 che curiosamente contiene solo brani scritti da John Cann molti dei quali bellissimi e inediti sugli album ufficiali oltre a una versione della mitica Devil’s answer un milione di volte più bella dell’originale. Restano un paio di dischi dal vivo sfolgoranti come "Live and Raw 70-71" o le "BBC Sessions" del 1972. Restano la moglie Jean che si occupa di portare avanti la fondazione che porta il nome del marito e John Cann che con pazienza certosina sta ricostruendo la carriera del suo tormentato socio pubblicando periodicamente brani inediti e nuove antologie dei Rooster.
Resta questo mio piccolo ma accorato omaggio a uno dei più validi e sottovalutati tastieristi, questo ricordo di lui e della sua inclassificabile musica che ho finito di scrivere proprio oggi, nel giorno di San Valentino del 2011, anniversario della morte di Vincent Crane, uomo, artista puro, grande e sfortunato musicista. Ciao Vincenzino!

Maurizio Pupi Bracali