Difficile di fronte ad opere come questa per il recensore (o scrittore) rimanere freddo ed imporsi un coté prettamente critico-informativo : basterebbe scrivere che un talento pianistico-classico tutto italiano, ormai acquisito, come Alessandra Celletti (anche compositrice, incide dal 1994) conosce online (attraverso un social network) Hans-Joachim Roedelius, 75enne musicista tedesco oggi tra i maggiori esponenti della musica elettronica-sperimentale, nonché pioniere della stessa scena sin dall’ormai lontanissimo 1970 (“Klopfzeichen” con Dieter Moebius e Conrad Shnitzler per la Schwann Records).
La loro amicizia e frequentazione, maturata anche attraverso la partecipazione della Celletti (su invito di Roedelius) nel 2007 al ‘More Ohr Less’ festival da lui organizzato, partorisce “Sustanza di Cose Sperata” o se preferite “The Essence Of Desired Things” o “Von Der Stofflichkeit Erhoffter Dinge”, opera incisa nel 2009 per l’etichetta nord-americana Transparency, messa a punto tra Roma e Baden in Austria: 15 brani, un’ora d’ineffabile musica trasversale in bilico tra splendidi picchi di pianismo classicheggiante ed evanescenti lunghi episodi di minimalismo ambient.
Ecco, basterebbero queste 1.031 battute (spazi compresi) a recensore e lettore frettolosi per liquidare Sustanza Di Cose Sperata, un disco come un altro: ed invece no, non si renderebbe assolutamente giustizia a questi brani che, superato lo scoglio/incognita del primo ascolto, si rivelano a successivi rendez-vous quasi una benefica malattia, una sorta di filosofia estetico-esistenziale; quella di rinunciare al martellante spossante dominio delle parole, per esprimere la levità ed al contempo profondità delle proprie emozioni attraverso l’universalità cromatica di un pianoforte e dei keyboards.
Sono questi gli strumenti cui si avvicendano Celletti e Roedelius, scambiandosi con assoluta democraticità di volta in volta il ruolo di voce conduttrice (il pianoforte) e quello di partner/rifinitore atmosferico tramite synths, keyboards e sounds ricondotti sempre a splendida levità minimalistica: funzione quest’ultima assolta principalmente da Roedelius, soprattutto nei quasi dieci minuti di Black & White, incantevole ineffabile dialogo tra i due musicisti ove trionfa la suddetta filosofia, veicolata dal preciso emozionante puntillismo pianistico della Celletti e mutuata dalla decennale sapienza ‘elettronico-ambient’ di Roedelius, artista prolificissimo che dopo aver marchiato con Cluster (con Moebius) ed Harmonia il periodo aureo della ‘musica cosmica’ tedesca nei ’70 ed ’80, ha continuato sino ad oggi una sua personalissima ricerca.
Il suo percorso artistico incrociò nei ’70 quello del grande stregone Brian Eno: con lui i Cluster incisero due albums importanti: "Cluster & Eno (1977)" e "After The Heat (1978)"; bastarono per imprimere nel dna e nelle acquisizioni stilistiche di Roedelius le intuizioni ambient dell’ex Roxy Music allora ancor embrionali.
In brani di Sustanza come Lilac ed Emerald invece l’estetica minimal-ambient trionfa; l’ombra di Eno si allunga avvolgendoli impalpabilmente (più timida nel resto dell’album), a tenergli compagnia solo vaghe rimembranze Satie: creazioni sonore impagabili che inducono (come Black & White) una trance magica della mente e dello spirito; ad occhi chiusi: ecco la maniera ideale per ‘attraversarli’ ottenendone il massimo beneficio. Forse solo nello stesso stato di trance la scrittura (io in tal caso) potrebbe assolvere degnamente il compito di descriverli.
Sustanza presenta comunque altri piani di lettura: quella classicheggiante, impressa eccelsamente in episodi come Purple, Orange, Rose dove è Roedelius a condurre le danze con pianismo sobrio ma ‘partecipato’; Rose, composizione dalla vena ‘patetica’ commuove nell’intimo.
Alessandra Celletti afferma il suo pianismo più ‘romanticamente’ incisivo ed ondivago in Green, Azure, Magenta: l’acme espressivo Alessandra lo raggiunge (a mio parere) in Turquoise, due minuti scarsi in cui l’anima si smarrisce davanti ad una dolcezza tanto ‘violenta’, ne rimane stuprata con grazia inusitata. Una meravigliosa ‘neo-classica’ del secondo millennio quella della Celletti, artista che nel corso della sua sfaccettata quindicinale carriera ha interpretato Satie, Philip Glass, Scott Joplin, Debussy, Ravel, Baldassarre Galuppi, affiancando, forse superandoli per intensità, analoghi collaudati registri espressivi quali quelli di Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi.
Una ‘neo-classica’ che nel caso di Sustanza non esita a fondersi col linguaggio ambient-avantgarde di Roedelius, sortendo un lavoro di grande ‘visione’ ed afflato artistico; sperimentale: non credo sia un aggettivo fuori luogo.
Altre sorprese: la Celletti canta in Our North e Strecciatu I con assoluta essenzialità; Roedelius canta in tedesco Rilke, un testo dell’omonimo poeta Rainer Maria Rilke riuscendo miracolosamente ad ammorbidirne con la sua sapida interpretazione i toni gutturali; l’avvolgente sound-collage in Rilke è assicurato dai coniugi-artisti giapponesi Nagashima che suonano il Shakuhatschi (sorta di flauto orientale) e dal musicista italiano Fabio Capanni alla chitarra.
Asciutta e ricca di suggestioni nostalgiche (ectoplasmi di cabaret tedesco) la performance vocale di Roedelius in Strecciatu II, un suo poema su musica del compositore austriaco Michael Hutterstrasser.
“Sustanza di cose sperata” si congeda con una stupenda versione del brano di Brian Eno By This River: co-composto da Roedelius stesso e Moebius, inciso nel 1977 su "Before And After The Science". La quadratura del cerchio è compiuta: a cantarlo è Christine, moglie di Roedelius.
Fate vostra quest’opera: sarà per voi un antidoto perfetto ed infallibile alla paccottiglia sonora propinatavi dai media; ed avrete un fondamentale, commovente documento sonoro della 'musica contemporanea' di questo inizio terzo millennio.
Wally Boffoli
Celletti Roedelius Live
Celletti-Roedelius (TGR)
Alessandra Celletti
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Roedelius
TransparencyRecords
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sabato 25 dicembre 2010
venerdì 24 dicembre 2010
LIVE REPORT - Christmas with The Fleshtones !
Il mio Natale del 1998 fu allietato da un grandissimo concerto dei Fleshtones qui in Puglia: ho pensato di riproporvi la mia cronaca di dodici anni fa, sperando sia invecchiata con dignità, per rendere magari questo Natale un pò speciale come fu per me quello del 1998. (wally)
The Fleshtones, una band che é una leggenda vivente del rock&roll, nata nel periodo di massimo splendore del punk newyorkese, fine anni '70. Ma Zaremba e soci non hanno mai avuto a che fare con l'ortodossia nichilista di un Richard Hell né con la concezione visionaria di un Tom Verlaine: Peter Zaremba, Keith Streng e c. sin dagli esordi hanno imposto una fresca personale estetica sixties-beat party/revival tesa quasi ad un congelamento di quella naiveté ritmica e melodica, ricchezza infinita ed eredità preziosa di un decennio che ha dato al rock molto, molto di più di quelli successivi. Fleshtones hanno sempre amato l'Europa, nella quale sono letteralmente idolatrati, Francia ed Italia in particolare, e negli ultimi anni ci hanno regalato degli shows indimenticabili.
THE FLESHTONES Live (Hype Pub, Trani/Bari 5/12/1998)
Ricordo ancora vividamente le emozioni provate all'ascolto del primo album dei newyorkesi Fleshtones, "Roman Gods": era il 1981, e dall'America arrivavano i primi Dream Syndicate, Green On Red, Gun Club e naturalmente The Cramps, ma il beat-garage adrenalinico che Peter Zaremba, Keith Streng trasudavano da quei solchi era letteralmente inzuppato di riferimenti ai grandi british-groups con i quali ero cresciuto, Animals, Yardbirds, Pretty Things. Negli anni '80 Fleshtones sono state una delle mie bands preferite in assoluto con album come "Hexbreaker!", poi ne avevo perso un pò le tracce.
Nei '90 invece sono tornati alla ribalta alla grande: li ho cercati, ed ho scoperto dischi come "Beautiful Light ('93)", "Laboratory Of Sound ('96)", vitali e scoppiettanti come sempre e soprattutto "More Than Skin Deep" per la Epitaph che rivive con potenza i fasti anfetaminici degli esordi. Grandissima era quindi l'attesa per il loro show all'Hype Pub di Trani del 5/12/98.
Sono stati preceduti dai bravi Rockin' Bones di Putignano (Ba), orfani purtroppo (per noi maschietti..) quella sera della loro strip-teaseuse, che hanno sfoderato un guitar-sound di tutto rispetto a base di richiami palesi surf e fifties: tra i brani eseguiti Custom Caravan (Pyramids, dalle famose raccolte Pebbles), It's Only Make Believe ed un originalissimo schizoide italian-rockabilly di Clem Sacco interpretato dallo spiritato batterista.
CHRISTMAS WITH THE FLESHTONES ! recitava il loro manifesto e miglior natale non potevano regalarci davvero gli indiavolati garage-rockers con un act intensissimo, una scaletta serrata al fulmicotone, con fulminee intrusioni di harmonica e farfisa-organ in un sound chitarristico sino allo spasimo, come nella migliore tradizione sixties.
Peter Zaremba (lead vocal/Harmonica/Farfisa/percussions), Keith Streng (guitars/vocals), Ken Fox (bass), Bill Milhizer (drums), non sono più giovanissimi e si vede; ma sono di quei musicisti che hanno DAVVERO venduto l'anima al diavolo: la vitalità, la gioia, l'energia che ti trasmettono dal palco sono uniche, complici anche la perfetta coreografia sixties della chitarre che si muovono e suonano in simbiosi, le febbrili contorsioni attorno all'asta del microfono di Peter, gli improvvisi stop ieratici seguiti da riprese elettrizzanti, le ripetute incursioni tra il pubblico in fila indiana dei quattro ....sino anche sul bancone del bar! Una professionalità non certo improvvisata la loro, di rockers che calcano i palchi di mezzo mondo ormai da più di 20 anni, mettendo d'accordo vecchia e nuova generazione, grazie ad un approccio punk alla gloriosa e gioiosa materia garage beat! Come non esaltarsi di fronte alle loro ruvide covers di Inside Looking Out (Animals) cantata da Streng, I Wish You Would, ai vecchi ma sempre trascinanti hits Stop Fooling Around, The World Has Changed, American Beat.
Tra i brani di più recente produzione abbiamo sudato e pogato I'm Not A Sissy, Laugh It Off, God Damn It con i nostri al massimo di un'ispirazione ritrovata tra le pieghe di una tradizione immarcescibile!
Wally Boffoli
Inside Looking Out
I'm Not a Sissy
Stop Fooling Around
American Beat
The World Has Changed
The Fleshtones, una band che é una leggenda vivente del rock&roll, nata nel periodo di massimo splendore del punk newyorkese, fine anni '70. Ma Zaremba e soci non hanno mai avuto a che fare con l'ortodossia nichilista di un Richard Hell né con la concezione visionaria di un Tom Verlaine: Peter Zaremba, Keith Streng e c. sin dagli esordi hanno imposto una fresca personale estetica sixties-beat party/revival tesa quasi ad un congelamento di quella naiveté ritmica e melodica, ricchezza infinita ed eredità preziosa di un decennio che ha dato al rock molto, molto di più di quelli successivi. Fleshtones hanno sempre amato l'Europa, nella quale sono letteralmente idolatrati, Francia ed Italia in particolare, e negli ultimi anni ci hanno regalato degli shows indimenticabili.
THE FLESHTONES Live (Hype Pub, Trani/Bari 5/12/1998)
Ricordo ancora vividamente le emozioni provate all'ascolto del primo album dei newyorkesi Fleshtones, "Roman Gods": era il 1981, e dall'America arrivavano i primi Dream Syndicate, Green On Red, Gun Club e naturalmente The Cramps, ma il beat-garage adrenalinico che Peter Zaremba, Keith Streng trasudavano da quei solchi era letteralmente inzuppato di riferimenti ai grandi british-groups con i quali ero cresciuto, Animals, Yardbirds, Pretty Things. Negli anni '80 Fleshtones sono state una delle mie bands preferite in assoluto con album come "Hexbreaker!", poi ne avevo perso un pò le tracce.
Nei '90 invece sono tornati alla ribalta alla grande: li ho cercati, ed ho scoperto dischi come "Beautiful Light ('93)", "Laboratory Of Sound ('96)", vitali e scoppiettanti come sempre e soprattutto "More Than Skin Deep" per la Epitaph che rivive con potenza i fasti anfetaminici degli esordi. Grandissima era quindi l'attesa per il loro show all'Hype Pub di Trani del 5/12/98.
Sono stati preceduti dai bravi Rockin' Bones di Putignano (Ba), orfani purtroppo (per noi maschietti..) quella sera della loro strip-teaseuse, che hanno sfoderato un guitar-sound di tutto rispetto a base di richiami palesi surf e fifties: tra i brani eseguiti Custom Caravan (Pyramids, dalle famose raccolte Pebbles), It's Only Make Believe ed un originalissimo schizoide italian-rockabilly di Clem Sacco interpretato dallo spiritato batterista.
CHRISTMAS WITH THE FLESHTONES ! recitava il loro manifesto e miglior natale non potevano regalarci davvero gli indiavolati garage-rockers con un act intensissimo, una scaletta serrata al fulmicotone, con fulminee intrusioni di harmonica e farfisa-organ in un sound chitarristico sino allo spasimo, come nella migliore tradizione sixties.
Peter Zaremba (lead vocal/Harmonica/Farfisa/percussions), Keith Streng (guitars/vocals), Ken Fox (bass), Bill Milhizer (drums), non sono più giovanissimi e si vede; ma sono di quei musicisti che hanno DAVVERO venduto l'anima al diavolo: la vitalità, la gioia, l'energia che ti trasmettono dal palco sono uniche, complici anche la perfetta coreografia sixties della chitarre che si muovono e suonano in simbiosi, le febbrili contorsioni attorno all'asta del microfono di Peter, gli improvvisi stop ieratici seguiti da riprese elettrizzanti, le ripetute incursioni tra il pubblico in fila indiana dei quattro ....sino anche sul bancone del bar! Una professionalità non certo improvvisata la loro, di rockers che calcano i palchi di mezzo mondo ormai da più di 20 anni, mettendo d'accordo vecchia e nuova generazione, grazie ad un approccio punk alla gloriosa e gioiosa materia garage beat! Come non esaltarsi di fronte alle loro ruvide covers di Inside Looking Out (Animals) cantata da Streng, I Wish You Would, ai vecchi ma sempre trascinanti hits Stop Fooling Around, The World Has Changed, American Beat.
Tra i brani di più recente produzione abbiamo sudato e pogato I'm Not A Sissy, Laugh It Off, God Damn It con i nostri al massimo di un'ispirazione ritrovata tra le pieghe di una tradizione immarcescibile!
Wally Boffoli
Inside Looking Out
I'm Not a Sissy
Stop Fooling Around
American Beat
The World Has Changed
GERRY MOHR e le sue reincarnazioni garage (parte prima) - THE MIRACLE WORKERS : una leggenda Hard-Garage degli anni ’80!
Che quella di GERRY MOHR fosse soprattutto un’insana passione per il crudo e sanguinante rock degli Stooges di Iggy Pop era già chiarissimo dagli anni dei MIRACLE WORKERS, originari di Portland, Oregon.
Il garage-rock delle sue successive reincarnazioni, THE CAVEMANISH BOYS, usciti nel 2.000 con un album formidabile, “Get a Load of…(A psichedelic R&B revue)” per la Munster R. e l'unico episodio con i GET LOST ("Never Come Back", Voodoo Rhythm, 2002) confermarono, serializzandole, le monomanie rock di Gerry.
The Miracle Workers sono stati i portabandiera del “garage-revisited” degli anni ’80, insieme a Fuzztones e Chesterfield Kings e, a parer mio, i meno calligrafici nel continuare la tradizione di Rolling Stones, Standells, Chocolate Watch Band, Stooges.
Il loro sound era carne e sangue e di certo dilatarono generosamente i confini di un genere a volte scolastico, con ubriacature hard e psichedeliche assolutamente devastanti!
Imperdibili in tal senso i due album “Overdose” e “Live at Forum” (entrambi del 1988) che contengono episodi grondanti elettricità ed energia allo stato brado.
"Overdose" in particolare, registrata per l’etichetta berlinese Love’s Simple Dreams durante la loro prima tournée europea nel 1987 (Austria, Germania Ovest, Svizzera, Italia), è forte di acri ballate garage chiaroscurali ancora scolpite nel mio martoriato immaginario rock, When a woman calls my name, She’s got a patron saint, Just can’t find a better way to waste your time, nelle quali Gerry Mohr elabora accattivanti registri di storyteller.
Ma si rimane attoniti di fronte alla potenza ed alla concitazione di Rock & Roll Revolution in the street pt.2, Without her around, When are you gonna care stoogesiani sino al midollo. Cartina al tornasole é la cover, guarda caso dal primo leggendario album degli Stooges, di Little Doll apice massimo di Overdose, fradicia di sorda ashtoniana sofferenza ad opera del chitarrista Matt Rogers: Matt straripa letteralmente in un solo 'dolorosissimo' elargendo fuzz e distorsioni con generosità inaudita. Gerry poi ci sottomette con minacciosi toni bassi degni dell’Iggy Pop più tenebroso!
Non credo si possa fare di meglio con un brano degli Stooges!
Ma c’è spazio anche per un’altra cover feroce, la serrata Teenage Head dei grandi Flamin’ Groovies. E mentre tra tanta carne e sangue la nostra psiche assuefatta al dolore del rock metropolitano più autentico esulta per un’iniezione d’adrenalina così letale, il distacco razionale e critico del rock-writer non può fare a meno di sottolineare che Overdose è una delle incisioni garage più importanti ed appassionanti degli anni ’80.
"Live At Forum”, registrato al Forum Enger in Germania e pubblicato ancora da un’etichetta tedesca, la Glitterhouse, evidenzia ulteriormente il lato fisico del garage dei M.Workers.
Pur celebrando già dal moniker il 'punk' mitico americano dei sixties, con l’allusione al famoso brano della Chocolate Watchband I Ain’t No Miracle Worker ( tradotto dai nostrani Corvi col titolo Un Ragazzo di Strada), i M.W. divenuti quattro dopo la defezione del tastierista Danny Demiankow nell’ ’86, consumano in questo live una sonora sbandata 'hard' : a cominciare dalla cover iniziale dei Black Sabbath Evil Woman, don’t you play your games with me giù giù sino a quelle ( ancora!) dei Flamin’ Groovies, Slow Death e degli Stooges , No Fun, immortale inno dell’insofferenza urbana!
Ecco, la grandezza di questi americani è proprio nel crossover di punk/garage/hard che emerge in questi solchi essenziali.Grande uso di armonica di Mohr , alcuni ottimi inediti, You Got your Head On Backwards, Memory Lane ed appassionanti originali da "Inside Out" ed Overdose, l’anfetaminica Already Gone, la crepuscolare Patron Saint, la ribelle Rock &Roll Revolution in the Street pt.2.
Con criterio piuttosto schizofrenico torniamo al 1985: è l’anno in cui un santone della scena garage come Greg Shaw pubblica il debutto sulla lunga distanza degli Workers, “Inside Out” per la sua etichetta Voxx, dopo un paio di e.p. dei nostri di stretta fede sixties tra cui “1,000 Micrograms Of…” ed alcuni brani disseminati su alcune raccolte nei primi anni ’80. Inside Out è già lapidaria cartina al tornasole dell’ispirazione e del vocalismo selvaggi ed acidi di Gerry mohr e quindi anch’esso imperdibile! Le tastiere di Demiankow permeano i brani di ortodossa estetica garage, e 5:35 vive di accentuati sviluppi psycho, ma tutte le componenti del sound M.W. sono già presenti, aggressivita’ estrema e carica rock offensiva (Go Now, Already Gone, Mistery Girl), ballate agrodolci (Inside Out, Love has no time) fuse in un ribollente mood espressivo.
Con molta intelligenza artistica i Miracle Workers sul declino degli anni ’80 hanno saputo rinnovarsi evitando di ricalcare pedissequamente lo stereotipo garage: con i tre album incisi per la Triple X varcano la soglia dei ’90 e avanzano nella nuova decade modificando gradualmente il loro lessico rock!
"Primary Domain (1989)", è il disco di un gruppo che omaggia ancora le radici (il Bo Diddley sound di Long Gone On Her Night Train) ed un suono energico (Memory Lane, Ninety Nine),ma stupefacente è lo slittamento verso atmosfere rarefatte, liriche, a volte vagamente dark: Mary Jane, Your Brown Eyes, Tick Tock battono sentieri notevolmente smussati e melodici rispetto la furia e l’high-rebellion di albums come Overdose e Live at the Forum.
I Miracle Workers sono quasi irriconoscibili, come la voce di Jerry Mohr, che si ricicla magicamente in toni suadenti ma pur sempre intriganti!
Alla buona prova di "Moxie’s Revenge (Skyclad/1990)", contenente l'ottima cover degli Wailers Hang Up e la perfida Strange Little Girl seguono invece gli ottimi "Roll Out The Red Carpet(1991)" e "Anatomy of a Creep (1995)".
Nel primo (che vede Aaaron Sperske sostituire Gene Trautmann alla batteria) i M.W. raggiungono un equilibrio mirabile tra le due variabili principali delineatesi nel loro sound: le fascinose, notturne Way Back When, Pretty One, Burn Baby Burn sono espressioni di un combo ormai rinnovato che non rinnega l’estetica 'underground' di cui è figlio ma la rinnova in nuove, più avanzate luminescenze sotterranee, molto simili a certe cose dell’Iggy Pop post-Stooges, al Bowie più lirico; a questo si aggiungano un uso maggiore e liquido delle tastiere e il fraseggio più articolato e maturo delle chitarre di Matt Rogers.
Una sorpresa quindi si rivela ancora una volta "Anatomy of a Creep", che pare affermare una nuova violenza espressiva degli Workers, con la forma-ballata divenuta ormai una costante, elettrificata da una disperazione figlia dei nuovi tempi!
Gerry Mohr e c. sembra quasi si divertano a sconvolgere le aspettative e gli equilibri raggiunti, rispondendo di album in album solo alla propria urgenza esistenziale e trasformandola in nuove emanazioni rock.
L’elettricità satura, le vibrazioni forti di brani che non lasciano varchi alla speranza e alla liricità delle prove precedenti, parlo di Ironic, Hey Lover, Joanna Crying, Sweets to The Sweet sono eloquenti di quanto i M.W. siano sensibili ai cambiamenti atmosferici degli anni che passano.
Incredibili sono le due ghost-tracks, dopo 11 minuti di silenzio: Search And Destroy degli Stooges, una cover assolutamente personale e sconvolta a dovere, ed un lungo strumentale nel quale a ruota libera e senza freno alcuno il ritrovato Trautman (drums), il fido bassista Robert Butler ed il prodigioso, sferzante chitarrista Matt Rogers consumano una dose letale di libidine hard-psichedelica senza precedenti. I Miracle Workers si congedano cosi', fragorosamente e subdolamente, riaffermando tutti quei valori rock in cui hanno creduto nel corso di quindici anni di esistenza!
Ritroveremo Gerry Mohr qualche anno più tardi con i CAVEMANISH BOYS, una nuova, eccitante ma breve avventura garage, autori di un album a dir poco memorabile!
Infine, ultima reincarnazione di Mohr, THE GET LOST, trio formato da Jerry Mohr, il ritrovato bassista Robert Butler ed il batterista Chris Rosales, che registrano in Svizzera per la Voodoo Rhythm "Never Come Back".
Per queste sue due ultime creature vi rimandiamo alla seconda parte di questa saga di resistenza psycho-garage, sempre che questa prima parte vi abbia appassionato!
Wally Boffoli
Discography:
1983 - Miracle Workers (EP, Moxie Records)
1984 - 1000 Micrograms of the Miracle Workers (EP, Sounds Interestings Records)
1985 - Inside Out (LP, Voxx/Bomp)
1988 - Live at the Forum (LP live, Glitterhouse)
1988 - Overdose (LP, Glitterhouse)
1989 - Primary Domain (LP, Glitterhouse)
1990 - Moxie's Revenge (CD compilation, Skyclad)
1991 - Roll Out the Red Carpet (CD, Triple X)
1995 - Anatomy of a Creep (CD, Triple X)
Il garage-rock delle sue successive reincarnazioni, THE CAVEMANISH BOYS, usciti nel 2.000 con un album formidabile, “Get a Load of…(A psichedelic R&B revue)” per la Munster R. e l'unico episodio con i GET LOST ("Never Come Back", Voodoo Rhythm, 2002) confermarono, serializzandole, le monomanie rock di Gerry.
The Miracle Workers sono stati i portabandiera del “garage-revisited” degli anni ’80, insieme a Fuzztones e Chesterfield Kings e, a parer mio, i meno calligrafici nel continuare la tradizione di Rolling Stones, Standells, Chocolate Watch Band, Stooges.
Il loro sound era carne e sangue e di certo dilatarono generosamente i confini di un genere a volte scolastico, con ubriacature hard e psichedeliche assolutamente devastanti!
Imperdibili in tal senso i due album “Overdose” e “Live at Forum” (entrambi del 1988) che contengono episodi grondanti elettricità ed energia allo stato brado.
"Overdose" in particolare, registrata per l’etichetta berlinese Love’s Simple Dreams durante la loro prima tournée europea nel 1987 (Austria, Germania Ovest, Svizzera, Italia), è forte di acri ballate garage chiaroscurali ancora scolpite nel mio martoriato immaginario rock, When a woman calls my name, She’s got a patron saint, Just can’t find a better way to waste your time, nelle quali Gerry Mohr elabora accattivanti registri di storyteller.
Ma si rimane attoniti di fronte alla potenza ed alla concitazione di Rock & Roll Revolution in the street pt.2, Without her around, When are you gonna care stoogesiani sino al midollo. Cartina al tornasole é la cover, guarda caso dal primo leggendario album degli Stooges, di Little Doll apice massimo di Overdose, fradicia di sorda ashtoniana sofferenza ad opera del chitarrista Matt Rogers: Matt straripa letteralmente in un solo 'dolorosissimo' elargendo fuzz e distorsioni con generosità inaudita. Gerry poi ci sottomette con minacciosi toni bassi degni dell’Iggy Pop più tenebroso!
Non credo si possa fare di meglio con un brano degli Stooges!
Ma c’è spazio anche per un’altra cover feroce, la serrata Teenage Head dei grandi Flamin’ Groovies. E mentre tra tanta carne e sangue la nostra psiche assuefatta al dolore del rock metropolitano più autentico esulta per un’iniezione d’adrenalina così letale, il distacco razionale e critico del rock-writer non può fare a meno di sottolineare che Overdose è una delle incisioni garage più importanti ed appassionanti degli anni ’80.
"Live At Forum”, registrato al Forum Enger in Germania e pubblicato ancora da un’etichetta tedesca, la Glitterhouse, evidenzia ulteriormente il lato fisico del garage dei M.Workers.
Pur celebrando già dal moniker il 'punk' mitico americano dei sixties, con l’allusione al famoso brano della Chocolate Watchband I Ain’t No Miracle Worker ( tradotto dai nostrani Corvi col titolo Un Ragazzo di Strada), i M.W. divenuti quattro dopo la defezione del tastierista Danny Demiankow nell’ ’86, consumano in questo live una sonora sbandata 'hard' : a cominciare dalla cover iniziale dei Black Sabbath Evil Woman, don’t you play your games with me giù giù sino a quelle ( ancora!) dei Flamin’ Groovies, Slow Death e degli Stooges , No Fun, immortale inno dell’insofferenza urbana!
Ecco, la grandezza di questi americani è proprio nel crossover di punk/garage/hard che emerge in questi solchi essenziali.Grande uso di armonica di Mohr , alcuni ottimi inediti, You Got your Head On Backwards, Memory Lane ed appassionanti originali da "Inside Out" ed Overdose, l’anfetaminica Already Gone, la crepuscolare Patron Saint, la ribelle Rock &Roll Revolution in the Street pt.2.
Con criterio piuttosto schizofrenico torniamo al 1985: è l’anno in cui un santone della scena garage come Greg Shaw pubblica il debutto sulla lunga distanza degli Workers, “Inside Out” per la sua etichetta Voxx, dopo un paio di e.p. dei nostri di stretta fede sixties tra cui “1,000 Micrograms Of…” ed alcuni brani disseminati su alcune raccolte nei primi anni ’80. Inside Out è già lapidaria cartina al tornasole dell’ispirazione e del vocalismo selvaggi ed acidi di Gerry mohr e quindi anch’esso imperdibile! Le tastiere di Demiankow permeano i brani di ortodossa estetica garage, e 5:35 vive di accentuati sviluppi psycho, ma tutte le componenti del sound M.W. sono già presenti, aggressivita’ estrema e carica rock offensiva (Go Now, Already Gone, Mistery Girl), ballate agrodolci (Inside Out, Love has no time) fuse in un ribollente mood espressivo.
Con molta intelligenza artistica i Miracle Workers sul declino degli anni ’80 hanno saputo rinnovarsi evitando di ricalcare pedissequamente lo stereotipo garage: con i tre album incisi per la Triple X varcano la soglia dei ’90 e avanzano nella nuova decade modificando gradualmente il loro lessico rock!
"Primary Domain (1989)", è il disco di un gruppo che omaggia ancora le radici (il Bo Diddley sound di Long Gone On Her Night Train) ed un suono energico (Memory Lane, Ninety Nine),ma stupefacente è lo slittamento verso atmosfere rarefatte, liriche, a volte vagamente dark: Mary Jane, Your Brown Eyes, Tick Tock battono sentieri notevolmente smussati e melodici rispetto la furia e l’high-rebellion di albums come Overdose e Live at the Forum.
I Miracle Workers sono quasi irriconoscibili, come la voce di Jerry Mohr, che si ricicla magicamente in toni suadenti ma pur sempre intriganti!
Alla buona prova di "Moxie’s Revenge (Skyclad/1990)", contenente l'ottima cover degli Wailers Hang Up e la perfida Strange Little Girl seguono invece gli ottimi "Roll Out The Red Carpet(1991)" e "Anatomy of a Creep (1995)".
Nel primo (che vede Aaaron Sperske sostituire Gene Trautmann alla batteria) i M.W. raggiungono un equilibrio mirabile tra le due variabili principali delineatesi nel loro sound: le fascinose, notturne Way Back When, Pretty One, Burn Baby Burn sono espressioni di un combo ormai rinnovato che non rinnega l’estetica 'underground' di cui è figlio ma la rinnova in nuove, più avanzate luminescenze sotterranee, molto simili a certe cose dell’Iggy Pop post-Stooges, al Bowie più lirico; a questo si aggiungano un uso maggiore e liquido delle tastiere e il fraseggio più articolato e maturo delle chitarre di Matt Rogers.
Una sorpresa quindi si rivela ancora una volta "Anatomy of a Creep", che pare affermare una nuova violenza espressiva degli Workers, con la forma-ballata divenuta ormai una costante, elettrificata da una disperazione figlia dei nuovi tempi!
Gerry Mohr e c. sembra quasi si divertano a sconvolgere le aspettative e gli equilibri raggiunti, rispondendo di album in album solo alla propria urgenza esistenziale e trasformandola in nuove emanazioni rock.
L’elettricità satura, le vibrazioni forti di brani che non lasciano varchi alla speranza e alla liricità delle prove precedenti, parlo di Ironic, Hey Lover, Joanna Crying, Sweets to The Sweet sono eloquenti di quanto i M.W. siano sensibili ai cambiamenti atmosferici degli anni che passano.
Incredibili sono le due ghost-tracks, dopo 11 minuti di silenzio: Search And Destroy degli Stooges, una cover assolutamente personale e sconvolta a dovere, ed un lungo strumentale nel quale a ruota libera e senza freno alcuno il ritrovato Trautman (drums), il fido bassista Robert Butler ed il prodigioso, sferzante chitarrista Matt Rogers consumano una dose letale di libidine hard-psichedelica senza precedenti. I Miracle Workers si congedano cosi', fragorosamente e subdolamente, riaffermando tutti quei valori rock in cui hanno creduto nel corso di quindici anni di esistenza!
Ritroveremo Gerry Mohr qualche anno più tardi con i CAVEMANISH BOYS, una nuova, eccitante ma breve avventura garage, autori di un album a dir poco memorabile!
Infine, ultima reincarnazione di Mohr, THE GET LOST, trio formato da Jerry Mohr, il ritrovato bassista Robert Butler ed il batterista Chris Rosales, che registrano in Svizzera per la Voodoo Rhythm "Never Come Back".
Per queste sue due ultime creature vi rimandiamo alla seconda parte di questa saga di resistenza psycho-garage, sempre che questa prima parte vi abbia appassionato!
Wally Boffoli
Discography:
1983 - Miracle Workers (EP, Moxie Records)
1984 - 1000 Micrograms of the Miracle Workers (EP, Sounds Interestings Records)
1985 - Inside Out (LP, Voxx/Bomp)
1988 - Live at the Forum (LP live, Glitterhouse)
1988 - Overdose (LP, Glitterhouse)
1989 - Primary Domain (LP, Glitterhouse)
1990 - Moxie's Revenge (CD compilation, Skyclad)
1991 - Roll Out the Red Carpet (CD, Triple X)
1995 - Anatomy of a Creep (CD, Triple X)
giovedì 23 dicembre 2010
THE BYRDS: Christmas Selection (prima parte), by Wally Boffoli and Music Box
Realizzando questa Byrds-compilation natalizia per i miei amici e collaboratori di Music Box, nonostante abbia ascoltato questi brani non so quante volte, sono rimasto 'intontito' e spiazzato un'ennesima volta da tanta BELLEZZA espressiva, da tanta ARTE vocale e strumentale. I Byrds furono alfieri di un'umanità e di testi fatti di buoni sentimenti e valori universali: l'amicizia, l'amore, il progresso intellettuale ed artistico di un'intera generazione; facciamoli nostri in questi anni di disfacimento.
E mi sono commosso ... come un ragazzino ... ho pianto, ascoltando Thoughts and Words, It' Won't Be Wrong, If You're Gone, Fifth Dimension, Everybody's Been Burned, annientato da tanta bellezza, come é più del 1967!
Musica 'angelica' delle sfere celesti, del nostro 'paradiso perduto'.
Non posso più ascoltarli io ....i Byrds! (Wally)
From "Mr.Tambourine Man" (Columbia/Legacy, 1965)
Mr.Tambourine Man (Dylan)
I Knew I'd Want You
All I Really Want To Do
It's No Use
The Bells Of Rhymney (Davies, Seeger)
From "Turn Turn Turn (Columbia, 1965)"
Turn Turn Turn (lyrics from Ecclesiaste)
It Won't Be Wrong
If You're Gone (Lead Vocal: Gene Clark)
He Was A Friend Of Mine
The World Turns All Around Her
From "Fifth Dimension (Sony, 1966)"
Fifth Dimension
I See You
Captain Soul
Eight Miles High (Alternate Version)
John Riley (Baez, Gibson, Traditional)
I Come And Stand At Every Door
Wild Mountain Thyme (McPeake, Traditional)
Hey Joe (Powers, Roberts) (Lead Vocal: David Crosby)
From "Younger Than Yesterday" (Columbia, 1967)
Have You Seen Her Face
Thoughts and Words
Everybody's Been Burned
Renaissance Fair (96' Remaster)
Time Between (Hillman, Lead Vocal Chris Hillman)
Why 1966 ( original mono 45)
C.T.A. 102
My Back Pages (Dylan)
From "Notorius Byrd Brothers" (Columbia, 1968)"
Goin' Back
Wasn't Born to Follow
Natural Harmony
Draft Morning
Dolphin's Smile
Get To You
Old John Robertson
Change Is Now
E mi sono commosso ... come un ragazzino ... ho pianto, ascoltando Thoughts and Words, It' Won't Be Wrong, If You're Gone, Fifth Dimension, Everybody's Been Burned, annientato da tanta bellezza, come é più del 1967!
Musica 'angelica' delle sfere celesti, del nostro 'paradiso perduto'.
Non posso più ascoltarli io ....i Byrds! (Wally)
From "Mr.Tambourine Man" (Columbia/Legacy, 1965)
Mr.Tambourine Man (Dylan)
I Knew I'd Want You
All I Really Want To Do
It's No Use
The Bells Of Rhymney (Davies, Seeger)
From "Turn Turn Turn (Columbia, 1965)"
Turn Turn Turn (lyrics from Ecclesiaste)
It Won't Be Wrong
If You're Gone (Lead Vocal: Gene Clark)
He Was A Friend Of Mine
The World Turns All Around Her
From "Fifth Dimension (Sony, 1966)"
Fifth Dimension
I See You
Captain Soul
Eight Miles High (Alternate Version)
John Riley (Baez, Gibson, Traditional)
I Come And Stand At Every Door
Wild Mountain Thyme (McPeake, Traditional)
Hey Joe (Powers, Roberts) (Lead Vocal: David Crosby)
From "Younger Than Yesterday" (Columbia, 1967)
Have You Seen Her Face
Thoughts and Words
Everybody's Been Burned
Renaissance Fair (96' Remaster)
Time Between (Hillman, Lead Vocal Chris Hillman)
Why 1966 ( original mono 45)
C.T.A. 102
My Back Pages (Dylan)
From "Notorius Byrd Brothers" (Columbia, 1968)"
Goin' Back
Wasn't Born to Follow
Natural Harmony
Draft Morning
Dolphin's Smile
Get To You
Old John Robertson
Change Is Now
SYD BARRETT: An Introduction to Syd Barrett (EMI/Harvest, Oct. 11th 2010)
Un’ennesima compilation di Syd Barrett penseranno certamente in molti! Certo, ma questa volta c’è più di un motivo per cercarla e farla propria; è la prima volta che compaiono affiancati brani scritti ed interpretati da Barrett quando era con i Pink Floyd: gli incredibili singoli del 1967 Arnold Layne (una comica vignetta su un travestito che raggiunse i Top 20), See Emily Play (Top Ten), Apples And Oranges; tre brani tratti dal capolavoro psichedelico “The Piper At The Gates Of Down (EMI, Aug 5, 1967)” in cui Barrett diede fondo al suo genio visionario e lisergico: la trasognata filastrocca Chapter 24, la marcetta inquietante Bike con finale rumorista, la mistica/orientaleggiante Matilda Mother, qui in una splendida versione alternativa; e brani tratti dai suoi due album solisti del 1970, “The Madcap Laughs” (Terrapin, Love You, Dark globe, Here I Go, Octopus, She Took A Long Cold Look, If It’s In You) e “Barrett” (Baby Lemonade, Dominoes, Gigolo Aunt, Effervescing Elephant).
Il tutto, ascoltato in splendida sequenza, rende marmorea la già stra-acquisita consapevolezza dell’unicità straniata (straniante) ed eccentrica dell’ispirazione barrettiana.
Tutti i brani poi sono meravigliosamente rimasterizzati digitalmente, ma in particolare, Octopus, She Took A Long Cold Look, Dominoes e Here I Go sono stati Remixati nel 2010 agli Astoria Studios da Damon Iddins, Andy Jackson ma in prima istanza proprio da quel David Gilmour che nel 1967 coprodusse Syd in The Madcap Laughs, produsse Barrett e che funge con amorevole continuità anche in questa "An Introduction To Syd Barret" da produttore esecutivo; Gilmour inoltre ha aggiunto e suonato nei suddetti quattro brani la chitarra basso.
Il quinto brano a beneficiare del fresco remix gilmouriano è Matilda Mother che possiamo riascoltare in una nuova sontuosa veste prodiga di importanti particolari sonico/strumentali evidenziati.
Una ghiotta, fondamentale occasione quindi "An Introduction To Syd Barrett" per i neofiti (ce ne sono?) per accostarsi al genio senza tempo di Syd Barrett; ma anche per gli appassionati di lunga data ed i Barrett-addicted di ogni età esiste in An Introduction … un grandissimo elemento di attrazione (oltre quel Bob Dylan Blues già apparso in “Wouldn't You Miss Me?: The Best of Syd Barrett” del 2001): un’ inedita jam strumentale di oltre 20 minuti, Rhamadan, un out-take proveniente dalle sessions del 1969 di Tha Madcap Laughs; i nomi dei musicisti che vi partecipano sono ignoti, persi nelle nebbie del tempo: molto probabilmente alle congas c’é Steve Peregrine Took, proveniente della primissima formazione dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan, nella quale adempiva oltre le percussioni, basso, piano ed armonie vocali.
Rhamadan, prodotta dal co-manager di Syd Barrett Peter Jenner ed annunciata all’inizio dal tecnico di sala ( “Rhamadan …Take One!”) è un cangiante brano strumentale sottolineato dall’inizio alla fine da una cupa ed ondivaga linea di basso: gli strumenti che interagiscono in assoluta libertà, talora avvinghiati in modo inestricabile o individualmente sono pianoforte, organo, quella che pare una tromba suonata con la sordina, batteria, chitarra. La lunga jam a tratti assume, per brevi sequenze, connotati para-jazzistici, discostandosene subito e veleggiando decisamente verso atmosfere visionarie e rumoriste, accentuate dalla cacofonia delle corde del pianoforte percosse e sollevate dall’interno e da un moog (o mellotron) che sceglie inquietanti accordi politonali.
Verso la fine un vibrafono aggiunge un ulteriore elemento di straniamento: impossibile capire cosa suoni Barrett (se vi suona), come è difficile descrivere quello che potrebbe essere il prodotto di un stato mentale ‘alterato’ di alcuni musicisti durante la registrazione di The Madcap Laughs, indotto forse anche dal mood disturbato di Barrett e delle sue composizioni; o più semplicemente un lungo momento liberatorio.
Da segnalare infine il raffinato, surreale artwork di Storm Thorgerson
Wally Boffoli
Syd Barrett / Pink Floyd - Matilda Mother (Alternate Version) (2010 Mix)
Syd Barrett - Rhamadan (2010 Mix) (Part 1)
Syd Barrett - Rhamadan (2010 Mix) (Part 2)
Syd Barrett - Octopus (2010 Mix)
Syd Barrett - Dominoes (2010 Mix)
BIKE-Roger Syd Barrett REMASTERED
Syd Barrett Chapter 24
Il tutto, ascoltato in splendida sequenza, rende marmorea la già stra-acquisita consapevolezza dell’unicità straniata (straniante) ed eccentrica dell’ispirazione barrettiana.
Tutti i brani poi sono meravigliosamente rimasterizzati digitalmente, ma in particolare, Octopus, She Took A Long Cold Look, Dominoes e Here I Go sono stati Remixati nel 2010 agli Astoria Studios da Damon Iddins, Andy Jackson ma in prima istanza proprio da quel David Gilmour che nel 1967 coprodusse Syd in The Madcap Laughs, produsse Barrett e che funge con amorevole continuità anche in questa "An Introduction To Syd Barret" da produttore esecutivo; Gilmour inoltre ha aggiunto e suonato nei suddetti quattro brani la chitarra basso.
Il quinto brano a beneficiare del fresco remix gilmouriano è Matilda Mother che possiamo riascoltare in una nuova sontuosa veste prodiga di importanti particolari sonico/strumentali evidenziati.
Una ghiotta, fondamentale occasione quindi "An Introduction To Syd Barrett" per i neofiti (ce ne sono?) per accostarsi al genio senza tempo di Syd Barrett; ma anche per gli appassionati di lunga data ed i Barrett-addicted di ogni età esiste in An Introduction … un grandissimo elemento di attrazione (oltre quel Bob Dylan Blues già apparso in “Wouldn't You Miss Me?: The Best of Syd Barrett” del 2001): un’ inedita jam strumentale di oltre 20 minuti, Rhamadan, un out-take proveniente dalle sessions del 1969 di Tha Madcap Laughs; i nomi dei musicisti che vi partecipano sono ignoti, persi nelle nebbie del tempo: molto probabilmente alle congas c’é Steve Peregrine Took, proveniente della primissima formazione dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan, nella quale adempiva oltre le percussioni, basso, piano ed armonie vocali.
Rhamadan, prodotta dal co-manager di Syd Barrett Peter Jenner ed annunciata all’inizio dal tecnico di sala ( “Rhamadan …Take One!”) è un cangiante brano strumentale sottolineato dall’inizio alla fine da una cupa ed ondivaga linea di basso: gli strumenti che interagiscono in assoluta libertà, talora avvinghiati in modo inestricabile o individualmente sono pianoforte, organo, quella che pare una tromba suonata con la sordina, batteria, chitarra. La lunga jam a tratti assume, per brevi sequenze, connotati para-jazzistici, discostandosene subito e veleggiando decisamente verso atmosfere visionarie e rumoriste, accentuate dalla cacofonia delle corde del pianoforte percosse e sollevate dall’interno e da un moog (o mellotron) che sceglie inquietanti accordi politonali.
Verso la fine un vibrafono aggiunge un ulteriore elemento di straniamento: impossibile capire cosa suoni Barrett (se vi suona), come è difficile descrivere quello che potrebbe essere il prodotto di un stato mentale ‘alterato’ di alcuni musicisti durante la registrazione di The Madcap Laughs, indotto forse anche dal mood disturbato di Barrett e delle sue composizioni; o più semplicemente un lungo momento liberatorio.
Da segnalare infine il raffinato, surreale artwork di Storm Thorgerson
Wally Boffoli
Syd Barrett / Pink Floyd - Matilda Mother (Alternate Version) (2010 Mix)
Syd Barrett - Rhamadan (2010 Mix) (Part 1)
Syd Barrett - Rhamadan (2010 Mix) (Part 2)
Syd Barrett - Octopus (2010 Mix)
Syd Barrett - Dominoes (2010 Mix)
BIKE-Roger Syd Barrett REMASTERED
Syd Barrett Chapter 24
mercoledì 22 dicembre 2010
LIVE REPORT - IMPACT + CHAIN REACTION (Bari, Taverna Vecchia del Maltese 11/12/2010)
Se nel 2010 200 persone di età compresa fra 13 e 50 (e più) anni vanno a vedere due punk band italiane dei primi anni ’80, è opportuno soffermarsi e trarne alcune considerazioni. La prima è che certo punk, nel corso di 4 decenni, ha mantenuto intatta la capacità di attrarre generazioni consecutive di individui ed è ancora in grado di comunicare idee di libertà, giustizia e solidarietà. Se ‘certo punk’ (non tutto) può ancora intercettare trasversalmente nel tempo istanze di ribellione in maniera pacifica e razionale come è avvenuto a Bari lo scorso 11 Dicembre, questo ne fa una vera controcultura, non un semplice fenomeno di moda musicale.
Una seconda considerazione è che gli Italiani, non proprio un popolo rock, quando si sono messi a fare l’hardcore, una musica con tanti elementi del rock ma anche con tante, spesso volute, negazioni del rock stesso (nell’approccio agli strumenti, nelle tematiche trattate) sono riusciti a segnare indelebilmente la colonna sonora di questa ondata controculturale, come confermato anche dai tanti figli di Italiani i cui cognomi si leggono a decine nelle file dell’hardcore americano di quegli anni.
I motivi della predisposizione della stirpe italica al punk rock mi sono oscuri anche se, il fatto che un popolo totalmente non-rock trova la sua espressione artistica in una musica in parte non-rock è un ragionamento che logicamente non fa una piega. È invece molto più chiaro il perché tanti ragazzi italiani, proprio negli anni ‘80, siano confluiti nel punk ed abbiano a vario titolo creato una scena, quella dell’hardcore italiano: quella scena ha saputo con molto tempo prevedere, leggere e tradurre in musica il declino di una nazione, oggi drammaticamente evidente…
Fatta questa doverosa premessa che è necessaria a giustificare il perché di un concerto del genere, ricordo che Impact e Chain Reaction erano negli anni ’80 due bands di punta della gloriosa scena hardcore italiana, comprensiva di gruppi in grado di superare per intensità ed abilità tecniche gli stessi americani, cioè gli inventori dell’hardcore. Non stupisce che i loro dischi, con riferimento agli originali, girino su e-bay a cifre improponibili in tempo di crisi. Hanno aperto la serata i baresi Chain Reaction.
Musicalmente dotati, tanto da essere notati dalla toscana Belfagor che produsse il loro 7 pollici “Gabbie” (nella top 50 del punk italiano degli anni ‘80), non furono fortunatissimi all’epoca, anche per le evidenti difficoltà geografiche che ne limitarono la capacità di proporsi in giro; “not much is known about this band” si legge da qualche parte sul web. Riformatisi alcuni anni fa, hanno deciso di recuperare il tempo perduto e stanno suonando ripetutamente in giro anche fuori dalla Puglia. Presto è in ristampa il loro 7” con alcuni pezzi nuovi.
Power trio dalle sonorità molto americane, ricordano davvero le bands del Midwest Americano e di Washington come gli Scream. Dal vivo è puro, fiammeggiante, incontaminato hardcore americano…
Discorso simile, ma in proporzioni esponenziali, per gli Impact.
All’epoca furono una delle band di punta della scena, registrarono varie volte, compreso un grande LP dal titolo “Solo Odio” del 1984 – e registrare un LP non era da tutti all’epoca; spesso non si avevano i soldi neanche per un demo. Anche la loro attività live fu frenetica. Non arrivarono in America come Raw Power, Negazione o Indigesti, ma furono protagonisti in Italia ed in Europa. Si può affermare senza alcun dubbio che una parte del codice genetico dell’ hardcore italiano, quello preciso, veloce, disperato, porta il nome di Impact. Da alcuni anni, circa 10, si sono riformati e tengono vivo sotto la cenere, con live-act s fulminanti come quello barese, il fuoco, lo ‘spirito’ di un periodo irripetibile a cui molte generazioni ancora si ispirano. Nulla non ha funzionato in questa serata barese a partire dalla storica location – quella della Taverna Vecchia del Maltese – che ha visto sul proprio palco gente come Melt Banana, US Maple, Ex, Trumans Water, Old Time Relijun, Lapse, Sweep The Leg Johnny, Nebula e tanti, tantissimi altri…
Sheep
Impact live Bari Taverna Vecchia Maltese, 11/12/2010
Ribellione
Non c'é pace per noi
Chain Reaction live Bari, Taverna Vecchia Maltese, 11/12/2010
Rage
Rottura Totale
LoveHate80
LIVE REPORT - White Magic (Pisa, Circolo Caracol, 9 dicembre 2010)
Perché ritrovarsi in una ventina a sentire il bel concerto dei White Magic? Certo si dirà peggio per gli assenti, ma non è consolante che una formazione sicuramente interessante e con una più che buona risposta live, abbia così poco seguito; quindici giorni prima lo stesso locale, il Caracol di Pisa, traboccava di pubblico per i Pan Del Diavolo, gruppo che evidentemente raccoglie molto seguito in ambito universitario.
Comunque malgrado l’esiguo numero di spettatori il gruppo di Mira Billotte, voce e tastiere e del chitarrista Doug Shaw, per l’occasione accompagnati da un bassista e da un batterista di cui purtroppo non conosco i nomi, ma comunque diversi da quelli che li hanno accompagnati nel disco d’esordio, ha suonato in modo decisamente convincente e con impegno.
Chi come me conosceva di loro il primo album “Dat Rosa Mel Apibus” del 2006, disco neo folk intriso di esoterismo e psichedelia, sarà rimasto leggermente sorpreso dal set live di questo concerto in cui vengono parzialmente abbandonate le atmosfere malinconiche e oscure alla Karen Dalton, a favore di una musica più energica in cui il ruolo della batteria, con un drumming molto post rock (non dimentichiamo che nel primo album alla batteria c’era Jim White dei Dirty Three), diventa centrale nel dare tono e ritmo ai brani e spesso entra in dialogo diretto con la voce
Mentre il basso segue una linea melodica costante con piccole variazioni e piano e chitarra stendono un suggestivo tappeto sonoro su cui si inserisce il vocalizzo della Billotte, che pur minuta, ricorda molto Sissy Spacek, canalizza su di sé l’attenzione per la dolcezza e la versatilità della voce.
Il concerto si è basato tutto su pezzi nuovi, il loro nuovo album è atteso nei prossimi mesi, nel 2008 hanno pubblicato un live: “Egypt” per la serie Latitudes della Southern, e sarà interessante vedere se questa piccola svolta manifestata nell’approccio live abbia anche un riscontro su disco.
Ignazio Gullotta
Foto di Ignazio Gullotta
White Magic - New Egypt @ Luminaire May 26th
One Note
As I Went Out One Morning
Song of Solomon
Katie Cruel
Comunque malgrado l’esiguo numero di spettatori il gruppo di Mira Billotte, voce e tastiere e del chitarrista Doug Shaw, per l’occasione accompagnati da un bassista e da un batterista di cui purtroppo non conosco i nomi, ma comunque diversi da quelli che li hanno accompagnati nel disco d’esordio, ha suonato in modo decisamente convincente e con impegno.
Chi come me conosceva di loro il primo album “Dat Rosa Mel Apibus” del 2006, disco neo folk intriso di esoterismo e psichedelia, sarà rimasto leggermente sorpreso dal set live di questo concerto in cui vengono parzialmente abbandonate le atmosfere malinconiche e oscure alla Karen Dalton, a favore di una musica più energica in cui il ruolo della batteria, con un drumming molto post rock (non dimentichiamo che nel primo album alla batteria c’era Jim White dei Dirty Three), diventa centrale nel dare tono e ritmo ai brani e spesso entra in dialogo diretto con la voce
Mentre il basso segue una linea melodica costante con piccole variazioni e piano e chitarra stendono un suggestivo tappeto sonoro su cui si inserisce il vocalizzo della Billotte, che pur minuta, ricorda molto Sissy Spacek, canalizza su di sé l’attenzione per la dolcezza e la versatilità della voce.
Il concerto si è basato tutto su pezzi nuovi, il loro nuovo album è atteso nei prossimi mesi, nel 2008 hanno pubblicato un live: “Egypt” per la serie Latitudes della Southern, e sarà interessante vedere se questa piccola svolta manifestata nell’approccio live abbia anche un riscontro su disco.
Ignazio Gullotta
Foto di Ignazio Gullotta
White Magic - New Egypt @ Luminaire May 26th
One Note
As I Went Out One Morning
Song of Solomon
Katie Cruel
STUART WOLSTENHOLME (1947-2010) : Addio “Wooly”! Il rock inglese piange Stuart Wolstenholme
Tutti coloro che hanno sempre apprezzato certe sonorità epiche e sinfoniche del rock inglese degli anni '70, certo soffriranno per questa improvvisa quanto drammatica perdita che si è recentemente abbattuta su quella scena musicale.
Il 13 dicembre scorso, infatti, per cause ancora da chiarire, si è tolto la vita Stuart “Wooly” Wolstenholme, tastierista che aveva giocano un ruolo di indiscusso protagonista in bands come Barclay James Harvest, Mandalaband e Maestoso.
Stuart era nato il 15 aprile del 1947, e fin dalla fine degli anni '60 aveva militato in diverse bands di psychedelia, beat e rock'n'roll, dove si alternava a diversi strumenti, dalla chitarra, al basso, all'armonica a bocca.
Il successo, però, lo aveva raggiunto al momento dell'esplosione del fenomeno del “progressive rock”, nel 1970, come tastierista dei Barclay James Harvest, nei quali militò tra il 1970 e il 1978. Wolstenholme era autodidatta, eppure i suoi arrangiamenti barocchi e le atmosfere solenni che cercava di ricreare con le sue tastiere avrebbero fatto ipotizzare a chiunque una provenienza da studi classici. In particolare Wooly Wolstenholme viene considerato, insieme ai Beatles e a Mike Pinder dei Moody Blues, uno dei grandi pionieri nell'uso del Mellotron, una primordiale tastiera elettromeccanica concepita per riprodurre, mediante delle bobine interne, suoni orchestrali o corali, di cui si può sentire un ottimo esempio proprio sul finale di Mockingbird, forse il massimo successo dei BJH.
A parte un paio di “comparsate”, a metà anni '70, nel supergruppo dei Mandalaband, un progetto coordinato dal compositore e produttore David Rohl, Wooly realizzò la maggior parte della sua produzione con i Barclay J.H., dai quali però fuoriuscì nel 1978, lasciando la postazione dietro le tastiere al polistrumentista Les Holroyd, che già nella band suonava il basso e la chitarra acustica.
Da quel momento Wooly realizzò soltanto tre album, nel 1980, nel 1994 e nel 2004, con un suo personale progetto denominato Maestoso.
Ma alla fine degli anni '90 anche fra John Lees, chitarrista, e Les Holroyd, gli ultimi due “reduci” storici dei BJH, nacquero delle tensioni, e così, mentre il polistrumentista continuò a girare il mondo con il nome tradizionale della band, il chitarrista Lees fondò un progetto parallelo, denominato Barclay James Harvest trough the eyes of John Lees e richiamò accanto a sé lo storico tastierista della formazione originale.
Negli ultimi anni, però, Wolstenholme, a detta dello stesso Lees e dei suoi più stretti collaboratori, iniziò a manifestare evidenti problemi di disagio mentale, sfociati, nei giorni scorsi, in un gesto che nessuno avrebbe potuto prevedere.
Alberto Sgarlato
Woolly Wolstenholme / Maestoso - Deceivers All 2004
Through a Storm - Woolly Wolstenholme / Barclay James Harvest
Woolly Wolstenholme / Maestoso - Sunday Bells 2004
MANDALABAND-III new album "BC-Ancestors" 2009
Cambridge Rock Festival 2009 - BJH - Suicide
Il 13 dicembre scorso, infatti, per cause ancora da chiarire, si è tolto la vita Stuart “Wooly” Wolstenholme, tastierista che aveva giocano un ruolo di indiscusso protagonista in bands come Barclay James Harvest, Mandalaband e Maestoso.
Stuart era nato il 15 aprile del 1947, e fin dalla fine degli anni '60 aveva militato in diverse bands di psychedelia, beat e rock'n'roll, dove si alternava a diversi strumenti, dalla chitarra, al basso, all'armonica a bocca.
Il successo, però, lo aveva raggiunto al momento dell'esplosione del fenomeno del “progressive rock”, nel 1970, come tastierista dei Barclay James Harvest, nei quali militò tra il 1970 e il 1978. Wolstenholme era autodidatta, eppure i suoi arrangiamenti barocchi e le atmosfere solenni che cercava di ricreare con le sue tastiere avrebbero fatto ipotizzare a chiunque una provenienza da studi classici. In particolare Wooly Wolstenholme viene considerato, insieme ai Beatles e a Mike Pinder dei Moody Blues, uno dei grandi pionieri nell'uso del Mellotron, una primordiale tastiera elettromeccanica concepita per riprodurre, mediante delle bobine interne, suoni orchestrali o corali, di cui si può sentire un ottimo esempio proprio sul finale di Mockingbird, forse il massimo successo dei BJH.
A parte un paio di “comparsate”, a metà anni '70, nel supergruppo dei Mandalaband, un progetto coordinato dal compositore e produttore David Rohl, Wooly realizzò la maggior parte della sua produzione con i Barclay J.H., dai quali però fuoriuscì nel 1978, lasciando la postazione dietro le tastiere al polistrumentista Les Holroyd, che già nella band suonava il basso e la chitarra acustica.
Da quel momento Wooly realizzò soltanto tre album, nel 1980, nel 1994 e nel 2004, con un suo personale progetto denominato Maestoso.
Ma alla fine degli anni '90 anche fra John Lees, chitarrista, e Les Holroyd, gli ultimi due “reduci” storici dei BJH, nacquero delle tensioni, e così, mentre il polistrumentista continuò a girare il mondo con il nome tradizionale della band, il chitarrista Lees fondò un progetto parallelo, denominato Barclay James Harvest trough the eyes of John Lees e richiamò accanto a sé lo storico tastierista della formazione originale.
Negli ultimi anni, però, Wolstenholme, a detta dello stesso Lees e dei suoi più stretti collaboratori, iniziò a manifestare evidenti problemi di disagio mentale, sfociati, nei giorni scorsi, in un gesto che nessuno avrebbe potuto prevedere.
Alberto Sgarlato
Woolly Wolstenholme / Maestoso - Deceivers All 2004
Through a Storm - Woolly Wolstenholme / Barclay James Harvest
Woolly Wolstenholme / Maestoso - Sunday Bells 2004
MANDALABAND-III new album "BC-Ancestors" 2009
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