This article is in loving memory of SANDRO MARIANI, a dear rock-friend of my youth who died yesterday in London....
goodbye Sandro...(Wally)
Mike Chandler ha una nuova band ma nessuno lo sa.
Del resto pochi ricordano anche quelle che ha avuto prima: una band di degenerati chiamati Outta Place che si divertivano a tirare fuori vecchie carcasse dalle pozze di lerciume del rock ‘n roll, metterci sopra qualche cencio ed esibirle come spaventapasseri nel circuito garage che contava. Erano i migliori del giro.
Sboccati e senza alcuna speranza di poter piacere ad alcuno, se non a me: all’ uscita del secondo mini-Lp, non esistevano già più.
Ancora prima c’era stato dell’altro: una band in cui lui suonava, malamente, il basso e Tim Warren altrettanto male l’ organo. Non ne sarebbe rimasta traccia ma avrebbe sancito la nascita di una grande amicizia, anche artistica: Mike avrebbe dato una mano economica all’ amico Tim per stampare un disco che avrebbe segnato l’inizio di un’etichetta che diventerà l’emblema di una intera filosofia di vita, la stessa da cui attingeranno proprio gli Outta Place (nella foto a destra).
La label era la Crypt Records e il disco il primo volume di "Back from the grave".
Le storie di Tim e Mike torneranno ad intrecciarsi, come vedremo.
Il passo successivo furono i Raunch Hands.
All’ epoca, non li capisce nessuno.
Dopo, neppure.
A parte Tim ovviamente, il quale non solo se li mette in casa e nel suo furgone per portarli in tour ovunque capiti, ma suggerisce pure a Mike tutta una serie di oscurissime cose che lui sta reperendo in giro per l’America per riempire i suoi volumi di musica improbabile. Inoltre, facendo uno strappo alla regola, li infila pure dentro il terzo volume delle sue Back from the grave, accanto a bestie come Murphy and The Mob, Montells e Little Willie and The Adolescents, aprendo per la prima volta le segrete della sua cripta ad una band contemporanea.
Ma prima di finire nella cripta di Warren i ragazzi firmano per la Relativity, un’etichetta metal messa su da Barry Kobrin ma che lavora pure con Robyn Hitchcock e Cocteau Twins, tra gli altri. Hanno soldi da investire, e li buttano così.
Tutto il materiale inciso per la Relativity verrà ristampato in digitale nel 1990 da un’etichetta di Tokyo, la 1+2 Records di Barn Homes ed è un po’ da qui che parte la storia del rock‘n roll a bassissima fedeltà degli anni Novanta. Quella di bands come Bassholes, ’68 Comeback, Gibson Bros. e Gories, per intenderci. Che non solo registrano male, anzi malissimo, ma suonano con quell’identico modo sgraziato, insolente e sfrontato recuperando dalle frattaglie che la storia del rock ha rimosso e messo tra gli scarti di produzione. Country, hillbilly e blues scassati, legati con lo spago e attaccati con mastice da falegname. Un po’ fuoriposto ovunque, all’epoca.
Ripudiati dagli oltranzisti devoti al garage punk degli Outta Place, derisi dai fedeli al suono roots, accusati di essere una band di fantocci che si fa beffe della tradizione. E invece… se i Long Ryders erano un branco di vaccari intenti a radunare il bestiame lungo le pasture della campagna americana, i Raunch Hands erano una piccola mandria di buoi che pascolava nel letamaio del rock‘n roll come solo i Panther Burns o i Cramps facevano all’ epoca.
Una di quelle piccole ma inevitabili botole dove può andare a incastrarsi il vostro
piede, se state cercando sotto l’asfalto con cui è stato coperto gran parte del
tesoro sepolto del rock ‘n roll. Statevi accorti.
Franco Lys Dimauro
Raunch Hands: Have A Swig MLP (Crypt,1990,CR-021)
L'articolo di Franco Lys Dimauro sui newyorkesi Raunch Hands ha avuto l'effetto di farmi ripescare nella mia raccolta di vinili punk e lo-fi stagionati, ancora incellophanato, questo mini-lp di Chandler e c. pubblicato esattamente 20 anni fa dalla Crypt Records di Tim Warren con numero di catalogo 021 ed acquistato da me da almeno 15.
Nel risentire il loro punk fracassone e beffardo ho ritrovato doti compositive ed esecutive che latitano nelle bands punk contemporanee: quella voglia di irridere tutti, anche se stessi, suonando con una rabbia mescolata a humour velenoso che ne fa una band inconfondibile anche in quel confuso e irrequieto arcipelago lo-fi a stelle e strisce che avrebbe fatto parlare di sè negli anni '90.
I Raunch Hands nei 7 episodi di "Have A Swig" a mio parere non tanto precorrono l'estetica lo-fi (il vinile é registrato bene ed il suono della band crepitante!)quanto raccolgono in brani come Naked Naked Naked ed Everybody Loves Yo' Mama il testimone dello spirito irriverente e dell'humour 'grasso' di icone rock&roll quali New York Dolls e Dictators, stravolti dai vocals grezzi e luridi (punk) di Mike Chandler che non lesina in toni cabarettistici sopra le righe; il blues apparentemente ortodosso di The Long Crawl Home degenera rovinosamente in un festino da bettola con toni decisamente alterati. Le corde sfrontate di Mike Mariconda seminano scompiglio nei solchi accompagnandosi spesso e volentieri al sax irridente di David Doris: l'effetto é spesso da 'cartoon' come in Never Comin' Home, per non parlare dell'enfasi approssimativa e disturbata di Hell Bent.
E mentre Chandler dà i numeri nella cover surreale di Frenzy (Screaming Jay Hawkins) a mandarci decisamente su di giri é l'altra cover dei Sex Pistols, Did You No Wrong, suonata con una benedetta e sana violenza caciarona che anche da seduti, ti fa muovere testa e tronco con urgenza incontrollata.
Wally Boff
Raunch Hands Myspace
GrunnenRocks
Video
Black Jack
Did You No Wrong (Sex Pistols)
Live For The Sun (The Sunrays)
Tiger Guitars
Thunderbird (Jerome Pejecky)
PAGINE
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venerdì 24 settembre 2010
giovedì 23 settembre 2010
Cult Records / Relatively Clean Rivers: "Relatively Clean Rivers" (Pacific, 1976), by Paolo Casiraghi
Forse la notte non e’ il momento adatto per una recensione, forse a volte non lo e’ nemmeno il giorno ma si sa, quando il sonno sopraggiunge tutto viene dilatato e le funzioni cerebrali rallentano … magari vuol dire che e’ il momento giusto, allora ci provero', ma non garantisco niente.
Ho in mano una bella birra gelata e me la sorseggio lentamente immaginando di essere su una veranda all’aperto in qualche paesino sperduto della California: si', e’ arrivato il momento del disco dei Relatively Clean Rivers, ex Beat Of The Earth di Phil Pearlman.
Un consiglio per gli amanti della pura psichedelia, voltate pagina per favore, questo disco non fa per voi, mi dispiace, rischiereste di leggere tutto questo malloppo per nulla e magari mi rifilerete anche un mucchio di parolacce.
Gli amanti del folk-rock elettro/acustico e del rock rurale sicuramente apprezzeranno e magari siederanno con me a sorseggiare qualche birra sulla veranda, d’altronde mi manca un po’di compagnia, mi sento solo.
Disco solare, assolutamente non pessimista, senza egocentrismi vari , trip acidi o alterazioni lisergiche di alcun tipo, solo musica suonata con il cuore, pura essenza dell’America rurale tanto decantata dai Grateful Dead dei primi ’70 e dal grande Neil Young.
Sta piovendo? Ok, spegnete il vecchio Thorens e aspettate tempi migliori.
Se invece viceversa il sole splende e la sabbia del deserto sta cocendo sotto i vostri piedi, prendete la puntina e appoggiatela su Easy ride e rilassatevi, non dovrete pensare ai vostri problemi per una buona mezz'oretta. Quando la seconda traccia comincera’ a girare, vi accorgerete che la vostra gola stara’ cominciando a seccarsi e reclamerete la seconda birra.
In effetti Journey Through The Valley Of ‘O’ rappresenta la perfezione assoluta con il suo suono cristallino e il tappeto di chitarre acustiche con l’occasionale intervento della solista elettrica.
Tutto scorrera’ molto velocemente, forse anche troppo, giusto il tempo per segnalarvi le magnifiche Babylon, Hello Sunshine e The Persian Caravan ma e’ difficile trovare un punto debole in questo capolavoro.
Ristampato su cd dalla Radioactive, il vinile originale e’ molto raro e ne esistono due diverse versioni, entrambe con copertina apribile, una con i testi all’interno, l’altra con le foto.
C’e’ solo un problema, le birre sono finite, adesso dobbiamo attraversare tutto il deserto per fare provvista e riascoltare il disco da capo: ma piuttosto, quante ne abbiamo bevute?
Deliziate le vostre orecchie e mi raccomando, assicuratevi che il sole splenda nel cielo …
Pura essenza.Paolo Casiraghi
The Rising Storm Net
Video
Babylon
Journey Through The Valley
Hello Sunshine
Easy Ride
The Persian Caravan
"LIVE EVENTS": The Disciplines - Torino e Roma (25 e 26 settembre)
Per tre quarti europei (Norvegia) e per un quarto statunitensi, The Disciplines sono una “guitar oriented” band dal suono quadrato e dinamico, in grado di passare dai pezzi tirati con richiami garage e pop-rock (Yours for the taking) alle ballate (Oslo) mantenendo una continuita' stilistica caratterizzata dall'articolazione dei pezzi, non prevedibile e non banale (e anzi a volte anche spiazzante).
Le due date italiane sono l'occasione per presentare il cd “Smoking Kills”, già pubblicato in vari paesi europei e negli USA e ora anche in Italia. The Disciplines, reduci da tour in mezza Europa e negli Stati Uniti, nel 2009 assieme agli Editor hanno aperto i concerti dei REM, dei quali Ken Stringfellow, il 'quarto' statunitense del gruppo, e'stato per un periodo membro aggiunto. Mentre gli altri componenti provengono dalla pop-band norvegese Briskeby, Stringfellow e' cofondatore (e ancora componente) dei Posies. Nel 2011 è prevista l'uscita della loro nuova produzione discografica.
Claudio Decastelli
25 settembre: Torino, Spazio211
26 settembre: Roma, Init Club
mercoledì 22 settembre 2010
The Jim Jones Revue: Burning Your House Down (2010 -Pias) by Wally Boff
E' diventato luogo comune che il punk arrivò quando il rock della metà anni '70, appesantito e tronfio dell'estetica dei supergruppi e dell'involuzione del progressive aveva bisogno vitale di un 'bagno di giovinezza', compito che il punk assolse brillantemente mettendo sugli scudi attitudine sporca, aggressiva e scarsa tecnica.
Che poi abbia fatto da apripista alle new-wave degli anni '80, che tra tanti meriti e picchi creativi aprì la strada a fenomeni deleteri quali l'electronic-dance o il new-romantic é un altro paio di maniche.
Per come la vedo io non é neanche un caso l'avvento di una band come l'anglosassone Jim Jones Revue che dal 2008 rappresenta un serio attentato ai nostri padiglioni auricolari: in un panorama internazionale privo di sussulti nel quale (scena garage a parte) lo slow-core imperante da un decennio e più a questa parte sembra aver appiattito e morfinizzato le velleità più ribelli del rock&roll ecco arrivare dalla sonnolenta Londra con l'impatto di un elefante in corsa cinque musicisti che riportano indietro le lancette dell'orologio di più di cinquant'anni sino alle radici ed alle origini del rock&roll più primitivo e selvaggio.
Sin dall'incendiario omonimo esordio del 2008 con brani esplosivi come Princess & The Frog, Rock&Roll Psychosis (titolo che parla da sé), Hey Hey Hey, The Mean Man, Make It Hot J.J.R. hanno dato in pasto al mondo il loro amore irragionevole ed anacronistico per il vero e puro 'cuore' del rock&roll, quello non corrotto da smanie di cultura alta, quello nato negli studi approssimativi dell'americana Sun Records negli anni '50, sporco di detriti country e di lontani spettri gospel.
Ed ecco materializzarsi quasi con un sapore di vendetta nelle corde vocali tirate allo spasimo di Jim Jones gli strilli strozzati di Little Richard, nel caracollare ubriaco del piano di Elliot Mortimer le movenze provocanti e ribelli di Jerry Lee Lewis.
Dopo l'intermezzo di "Here To Save Your Soul, Singles Vol.1", raccolta di singoli e b-sides ecco l'incredibile conferma di "Burning Your House Down".
Jim Jones é vocalist e front-man di intensi trascorsi nei Thee Hipnotics e Black Moses, bands dallo sfrontato approccio hard-garage, presupposti che nella sua nuova creazione prendono prepotentemente fattezze noise: perché é di un allucinante muro di watts che i nostri rivestono il cuore rock&roll dei loro brani, restituendogli quegli attributi di oltraggio ed antagonismo che gli erano stati scippati da troppe 'waves' di circostanza.
Mentre i Cramps hanno sempre suonato lo scheletro al netto della polpa del rock&roll nelle fattezze del rockabilly e dello psychobilly Jim Jones Revue fanno un'operazione opposta noisizzandolo senza mezze misure.
Burning Your House Down non é assolutamente inferiore al debutto in abrasività e violenza esecutiva: la chitarra di Rupert Orton diviene assoluta protagonista in veri e propri assalti alla baionetta come Elemental, High Horse, Premeditated prendendo il sopravvento sul piano di Mortimer (in splendido primo piano in High Horse), salvo deliziarci con un organo sfolgorante in Killin' Spree; il rock&roll diviene in "Burning Your House Down" una pozione altamente alcoolica nella quale rockabilly, boogie woogie, swing sbilenco e noise si amalgamano con naturalezza, con richiami evidenti in brani come Stop The People e Shoot First agli Aerosmith più sfacciati ed addirittura ai Faces più sbronzi persi.
Che di situazioni alcooliche si tratta lo confermano le performances alticce e splendidamente oltraggiose di Jim Jones in Dishonest John, Righteous Wrong e Burning Your House Down.
Se siete in cerca di emozioni forti "Burning Your House Down" fa decisamente al caso vostro: in caso contrario statene alla larga e lasciatevi avvolgere dal fascino discreto di un qualsiasi disco dei Cowboy Junkies.
Wally Boff
thejimjonesrevuemyspace
JimJonesRevue Official Site
Video
Elemental
High Horse
Good Golly Miss Molly
Burning Your House Down
Rock'n'Roll Psychosis
martedì 21 settembre 2010
'60 English Pop-Psychedelia/ Rainbow Ffolly: Sallies Fforth (Rev-Ola/See For Miles 1968) by Andrea Angelini
Un flash su quella magica stagione rock internazionale della seconda metà anni '60: la 'novella' psichedelia irradia i suoi bagliori sulla pop-music ed accanto alle pietre miliari sbocciano numerose 'nuggets' rimaste per tanto tempo figlie di un dio minore e poi riscoperte in tempi più o meno recenti; Andrea Angelini ci parla estesamente di una delle più fulgide: The Rainbow Ffolly. (W.B.)
Dopo la sbornia psichedelica della cosiddetta Summer of Love del 1967 la scena musicale internazionale non fu più la stessa: sulle orme del celebrato Sergente Pepe beatlesiano, ma anche di altri capolavori non meno geniali ed importanti (l'esordio dei Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine, l'esordio dei Blossom Toes, "Their Satanic Majesties" degli Stones, il debutto di Jimi Hendrix Experience, "After Bathing at Baxter's" dei Jefferson Airplane, "Younger Than Yesterday" dei Byrds) la fantasia e la creatività non andarono, come sognato, al potere politico, ma si impadronirono delle menti di coloro che erano disposti ad osare e inclini a non avere barriere stilistiche.
In questo clima si inseriscono i Rainbow Ffolly e l'album di cui qui si parla "Sallies Fforth", per anni rimasto uno degli artefatti più rari e ricercati dai collezionisti, vero e proprio oggetto misterioso,
perduto nelle nebbie del tempo che fu.
I Rainbow Ffolly erano un quartetto britannico costituito dai fratelli Jonathan e Richard Dunsterville chitarristi e cantanti e compositori dei brani, dal bassista Roger Newell e dal batterista Stewart Osborn, nomi sconosciuti ora come allora, eppure ottimi musicisti, tutti provenienti dall'Istituto d'Arte della capitale britannica. Doti compositive fuori dal comune, ottima padronanza strumentale e vocale, arrangiamenti al di sopra della media e ispirazione proveniente dalle migliori band dell'epoca (chiarissima l'influenza degli Small Faces, dei Beatles del 1967, degli Who di
"Sell Out" senza mai plagiare o scopiazzare pedissequamente nessuno, ma anzi diventando parte della stessa scena musicale permisero ai 4 di registrarsi i loro brani presso uno studio indipendente,i Jackson Recordings Studios, con la produzione dei fratelli Jackson al passo con i tempi e la fantasia dell'epoca.
Prese forma così un caleidoscopio di suoni, atmosfere e immagini musicali tra i più originali e impressionanti del 1968. Armati del proprio bagaglio di canzoni e forti di una costante attività live, i 4 puntarono direttamente al top, si proposero alla Parlophone Records, l'etichetta dei Beatles. Gli stessi Fab Four li apprezzarono molto e furono messi sotto contratto, ma la storia finisce qui...il loro album dopo i primi positivi riscontri fu giudicato troppo strano, multiforme e dispersivo nella sua formula multigenere e la Parlophone incapace di trovare una collocazione e una strategia di marketing promozionale decise di congelarlo temporaneamente in attesa di tempi più consoni.
La band ingenuamente poco se ne preoccupò continuando ad esibirsi con successo in ogni angolo d'Inghilterra per molti mesi fino all'inevitabile scioglimento dovuto al mancato riscontro commerciale, alle tensioni crescenti con la Parlophone e alla consapevolezza di essere stati manipolati e poi caduti in disgrazia.
Per chi ama il tipico Pop Psichedelico britannico di fine'60 sulla scia di Small Faces, The Move, Blossom Toes, Tomorrow, i Rainbow Ffolly saranno una splendida sorpresa e diventeranno irrinunciabile oggetto di piacevoli e ripetuti ascolti.
L'album apre in puro stile cockney alla Small Faces con tanto di ambientazione in aereo e scherzoso annuncio della band da parte di un finto comandante di bordo...sì, anche nel 2010, 40 anni dopo, siamo i benvenuti a bordo, inizia il viaggio nell'epoca delle chitarre e dei nastri mandati al contrario, dei coretti in paradiso, dei sitar sparsi qua e là tanto per gradire, delle atmosfere sognanti che rimandano al mondo incantato di Lewis Carroll e Alice in Wonderland.
La malinconica storia narrata in Montgolfier ha i colori della favola che però dopo un minuto ci trasporta all'interno di un'abbazia dove 4 voci perfettamente in sintonia intonano un madrigale in piena regola ...strano??? No, geniale!
I'm so happy sposa cabaret e spirito vaudeville squisitamente britannico con un orecchio alla lezione surreale dei Bonzo Dog Doo Dah Band e la citazione di Itchicoo Park degli Small Faces.
Drive My Car è uno svelto pastiche surf-beat.
Poi il vero capolavoro dell'album, senza esagerazione una delle canzoni d'amore più belle dell'intera storia del british rock: Goodbye è una stupenda ballata acustica che celebra la fine di un amore, è solo da ascoltare cosa riescono a comunicare una chitarra classica arpeggiata in stile bossa nova, un basso melodico e mai invadente, una voce che malinconicamente accarezza le parole di addio e cori a supporto del triste messaggero; magia allo stato puro.
Si continua fra acide chitarre e sanguigni blues figli di Hendrix e Jeff Beck in Hey You, viaggi astrali alla Moody Blues in Labour Exchange con voci e parodie per non prendersi mai troppo sul serio, un'antica giga irlandese modernizzata e resa ultra psichedelica dal gusto corrente in They'M, deviazioni in territorio Dylaniano con swing e jazz in Come On Go fino al finale omaggio- parodia dei Beach Boys con replica dei loro tipici coretti da spiaggia lisergica in Go Girl. Il vero mistero della vicenda Rainbow Ffolly, al di là della reperibilità dell'album, tornato disponibile in CD da una decina di anni ad opera della benemerita See For Miles, è come sia stato possibile che una band e un disco di tale statura e valore non siano assurti al successo in un'epoca in cui c'era ancora spazio in classifica per opere ben più ostiche e complesse -valga per tutti l'esempio dell'Incredibile String Band- dall'ottimo riscontro commerciale e di pubblico.
Ma ora tocca a voi: un'occhiata alla stupenda copertina, disegnata da Jonathan Dunsterville vero artista a tutto tondo, una mano al portafoglio e voila'.... un cd in più nella vostra collezione, ma non un cd qualunque; le vostre orecchie, la vostra sete musicale e soprattutto il buonumore conseguente della vostra anima vi ringrazieranno per sempre.
Andrea Angelini
RainbowFfollyMyspace
PsychedelicObscurities
CavernaNostalgica
PeppermintStore
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Sun Sing
Goodbye
I'm So Happy
Sighing Game
No
Labour Exchange
She's Alright
lunedì 20 settembre 2010
Leonard Cohen: poeta, cantautore, mito (by Ruben)
Alla veneranda età di 76 anni Leonard Cohen, uno dei più grandi songwriters viventi, calca ancora i palcoscenici e lo fa con una leggerezza incommensurabile: basta guardare il dvd "Live In London" per rendersene conto.
Il 14 settembre scorso é uscito il suo nuovo lavoro live "Songs From The Road" (cd e dvd) registrato durante lo stesso tour mondiale da cui fu tratto nel 2009 "Live In London" (doppio cd e dvd): ottima occasione per pubblicare il pregevole pezzo su Leonard Cohen di Ruben. (W.B.)
Una sera, ad una cena in suo onore, Bob Dylan prese per mano Elizabeth Taylor e la trascinò al cospetto di uno degli invitati, dicendole “Vieni, lascia che ti presenti ad un vero poeta…”. E così la diva hollywoodiana si trovò alla presenza, quanto mai discreta, di Mr. Leonard Cohen.
Diceva Robert Fripp, chitarrista e mente dei King Crimson, che la musica si serve delle persone più improbabili - come lui stesso - come strumento che le dia voce. La musica ha scelto di servirsi anche di questo uomo mite, schivo, più portato alla vita da eremita che alla ribalta, privo di quel narcisismo che caratterizza chiunque desideri salire su un palco alla luce accecante dei riflettori.
Nativo di Montreal e proveniente da una famiglia ebrea, il giovane Leonard si ap
passiona inizialmente alla poesia, che rimarrà sua fedele compagna di vita (o, per meglio dire, la poesia troverà in lui uno dei suoi migliori compagni). Dà quindi alle stampe una raccolta di poesie e si eclissa in quel di Hydra, minuscola isola della Grecia dove trascorrerà lunghi anni immerso nella scrittura di liriche e romanzi. Questa esigenza di isolamento tornerà con stringente necessità nella sua vita.
Infatti in tempi più recenti, già quasi sessantenne, si ritirerà in un convento buddista a Mount Baldy, sopra Los Angeles, per più di un lustro, anche per combattere la dipendenza dall’alcol insorta con il tour per il disco "The Future". Evidentemente il bisogno di quiete e silenzio, meditazione e ascesi, è molto forte nel Nostro e influenza anche la composizione delle sue canzoni; basti pensare ad un brano - un’autentica preghiera - come If It Be Your Will (“Se sarà il tuo volere, che non parli più…”). Non è un caso che Cohen sceglierà per il suo ritiro a Mount Baldy l’appellativo monacale di Jikan, ovvero “il silenzioso”.
Per converso, sarà il suono energico e deragliante di “Bringing It All Back Home”, album del collega Dylan da lui imposto ad un gruppo di amici poeti ad un party, a convincerlo a tentare la carta della musica, visto che, come stava insegnando proprio Dylan, era possibile mettere in una canzone il linguaggio della poesia (e considerato anche che, come dicevano gli antichi, “litterae non dant panem”…).
Il disco d’esordio, “Songs Of Leonard Cohen” del 1968, è un capolavoro e sancirà la nascita di una nuova e autorevole voce nel mondo della canzone.
Anche nel belpaese il suo nome comincerà a diffondersi fra gli appassionati, e la data di pubblicazione a riguardo ha la sua suggestione… Disco pieno di classici che ogni tanto vengono riscoperti, vedi la meravigliosa Hey, That’s No Way To Say Goodbye recentemente ripresa in uno spot pubblicitario. D’altronde il nostro uomo dice che le sue canzoni sono come le Volvo: durano nel tempo, e ha perfettamente ragione.
Basti pensare che un suo brano tratto da “Various Position”, album del 1984 che la casa discografica si rifiutò di pubblicare negli States, è quella Hallelujah che grazie all’interpretazione sensazionale di Jeff Buckley ora conoscono anche i sassi ed è destinata ad imperitura memoria. Canzone manifesto, in cui l’elemento autobiografico e le suggestioni bibliche, sempre presenti nella sua opera, si fondono mirabilmente in una melodia che, soprattutto nella strofa, è il miglior contributo alla musica fornito da Cohen.
Di recente, dato che la sua manager gli ha quasi ripulito il conto in banca, è stato costretto ad uscire dalla sua umbratile way of life, e si è imbarcato in un mastodontico tour mondiale in più di 80 paesi, roba da far tremare le gambe a musicisti ben più giovani. Sostenuto da una band impeccabile, cappello Fedora calcato sulla fronte, ripercorre con grazia ed eleganza inimitabili il suo repertorio. Mi piace ricordarlo in una gag, che si ascolta proprio nel cd “Live In London” tratto dal tour. Dopo aver finito di cantare Tower Of Song, altro brano indice del sua poetica, sul coro finale cantato dalle backing singers avvisa gli astanti di essere finalmente giunto alla Risposta ai misteri della vita e di essere disposto a rivelarla, per poi enunciare con studiata enfasi ripetendo sul loro coro: “doo dan dan dan de doo dan dan”. Sì Leonard, forse la risposta a tutte le nostre domande, al perché della vita e di quanto hai scandagliato con maestria in tutta la tua opera, non è altro che questa: alcune ragazze che cantano un piacevole e sensuale motivetto…
Sempre grati alla tua sublime ironia.
Sito Ufficiale Leonard Cohen
video
Hallelujah
Tower Of Song
Dance Me To The End Of Love
Sisters Of Mercy
Hey Thats No Way To Say Goodbye
Il 14 settembre scorso é uscito il suo nuovo lavoro live "Songs From The Road" (cd e dvd) registrato durante lo stesso tour mondiale da cui fu tratto nel 2009 "Live In London" (doppio cd e dvd): ottima occasione per pubblicare il pregevole pezzo su Leonard Cohen di Ruben. (W.B.)
Una sera, ad una cena in suo onore, Bob Dylan prese per mano Elizabeth Taylor e la trascinò al cospetto di uno degli invitati, dicendole “Vieni, lascia che ti presenti ad un vero poeta…”. E così la diva hollywoodiana si trovò alla presenza, quanto mai discreta, di Mr. Leonard Cohen.
Diceva Robert Fripp, chitarrista e mente dei King Crimson, che la musica si serve delle persone più improbabili - come lui stesso - come strumento che le dia voce. La musica ha scelto di servirsi anche di questo uomo mite, schivo, più portato alla vita da eremita che alla ribalta, privo di quel narcisismo che caratterizza chiunque desideri salire su un palco alla luce accecante dei riflettori.
Nativo di Montreal e proveniente da una famiglia ebrea, il giovane Leonard si ap
passiona inizialmente alla poesia, che rimarrà sua fedele compagna di vita (o, per meglio dire, la poesia troverà in lui uno dei suoi migliori compagni). Dà quindi alle stampe una raccolta di poesie e si eclissa in quel di Hydra, minuscola isola della Grecia dove trascorrerà lunghi anni immerso nella scrittura di liriche e romanzi. Questa esigenza di isolamento tornerà con stringente necessità nella sua vita.
Infatti in tempi più recenti, già quasi sessantenne, si ritirerà in un convento buddista a Mount Baldy, sopra Los Angeles, per più di un lustro, anche per combattere la dipendenza dall’alcol insorta con il tour per il disco "The Future". Evidentemente il bisogno di quiete e silenzio, meditazione e ascesi, è molto forte nel Nostro e influenza anche la composizione delle sue canzoni; basti pensare ad un brano - un’autentica preghiera - come If It Be Your Will (“Se sarà il tuo volere, che non parli più…”). Non è un caso che Cohen sceglierà per il suo ritiro a Mount Baldy l’appellativo monacale di Jikan, ovvero “il silenzioso”.
Per converso, sarà il suono energico e deragliante di “Bringing It All Back Home”, album del collega Dylan da lui imposto ad un gruppo di amici poeti ad un party, a convincerlo a tentare la carta della musica, visto che, come stava insegnando proprio Dylan, era possibile mettere in una canzone il linguaggio della poesia (e considerato anche che, come dicevano gli antichi, “litterae non dant panem”…).
Il disco d’esordio, “Songs Of Leonard Cohen” del 1968, è un capolavoro e sancirà la nascita di una nuova e autorevole voce nel mondo della canzone.
Anche nel belpaese il suo nome comincerà a diffondersi fra gli appassionati, e la data di pubblicazione a riguardo ha la sua suggestione… Disco pieno di classici che ogni tanto vengono riscoperti, vedi la meravigliosa Hey, That’s No Way To Say Goodbye recentemente ripresa in uno spot pubblicitario. D’altronde il nostro uomo dice che le sue canzoni sono come le Volvo: durano nel tempo, e ha perfettamente ragione.
Basti pensare che un suo brano tratto da “Various Position”, album del 1984 che la casa discografica si rifiutò di pubblicare negli States, è quella Hallelujah che grazie all’interpretazione sensazionale di Jeff Buckley ora conoscono anche i sassi ed è destinata ad imperitura memoria. Canzone manifesto, in cui l’elemento autobiografico e le suggestioni bibliche, sempre presenti nella sua opera, si fondono mirabilmente in una melodia che, soprattutto nella strofa, è il miglior contributo alla musica fornito da Cohen.
Di recente, dato che la sua manager gli ha quasi ripulito il conto in banca, è stato costretto ad uscire dalla sua umbratile way of life, e si è imbarcato in un mastodontico tour mondiale in più di 80 paesi, roba da far tremare le gambe a musicisti ben più giovani. Sostenuto da una band impeccabile, cappello Fedora calcato sulla fronte, ripercorre con grazia ed eleganza inimitabili il suo repertorio. Mi piace ricordarlo in una gag, che si ascolta proprio nel cd “Live In London” tratto dal tour. Dopo aver finito di cantare Tower Of Song, altro brano indice del sua poetica, sul coro finale cantato dalle backing singers avvisa gli astanti di essere finalmente giunto alla Risposta ai misteri della vita e di essere disposto a rivelarla, per poi enunciare con studiata enfasi ripetendo sul loro coro: “doo dan dan dan de doo dan dan”. Sì Leonard, forse la risposta a tutte le nostre domande, al perché della vita e di quanto hai scandagliato con maestria in tutta la tua opera, non è altro che questa: alcune ragazze che cantano un piacevole e sensuale motivetto…
Sempre grati alla tua sublime ironia.
Ruben
Sito Ufficiale Leonard Cohen
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domenica 19 settembre 2010
Grinderman 2 (Anti Rec./Sept.14 2010), by Wally Boff
C’è stato qualcuno che recensendo "Grinderman 2" ha rinunciato ai consueti strumenti critici ed a descrivere cosa succede in questi ‘solchi’ nel tentativo eroico di farlo capire a chi vi si accostasse: si è rifugiato in elucubrazioni in versi come estremo canovaccio per vomitare gli stati d’animo esasperati che Grinderman 2 suggerisce in un transfert fatale. Trovo che costui non abbia tutti i torti perché l’ascolto di questo secondo lavoro di Nick Cave/Warren Ellis/Martin Casey/Jim Sclavunos, creatura deforme parallela ai Bad Seeds sin dal primo brano induce a chiudere gli occhi e chiudere la porta alla razionalità sensoriale: il primo lavoro uscito tre anni fa (2007) aveva già dischiuso all’ascoltatore ignaro un groviglio ‘psichedelico’ messo a punto attraverso una concezione strumentale crudele e sorprendentemente inedita.
La novità vera del primo capitolo erano stati i suoni e "Grinderman 2" conferma questa direzione. Sin dall’iniziale Mickey Mouse and the Goodbye Man: dopo un intro dolcissima, basso e batteria martellanti riportano implacabilmente agli incubi ‘festa di compleanno’ di "Junkyard" e "Prayers on Fire" mentre Nick Cave si lancia nei suoi vaticini dolorosi; una cesura indolore divide questi quasi 6 minuti in due parti.
Grinderman continuano ad essere serialmente Warren Ellis oltre Cave: nella seconda parte di Mickey Mouse and the Goodbye Man la voce di Cave va a liquefarsi in una stratificazione di suoni prodotti dal polistrumentista, Honher Guitaret, Fendocaster, Electric Bouzouki, tastiere ‘trattate’ sono gli aggeggi di cui si serve insieme allo stesso Cave per continuare ad esplorare una psichedelia aliena che afferra e violenta sadicamente, con improvvise mazzate timbriche di provenienza non ben identificata, folate chitarristiche a temperature d’altoforno e gemiti tastieristici.
Il lupo in copertina, lo stesso che si aggira furtivamente minaccioso nell’homepage dei Grinderman è efficace cassandra dei gironi infernali che si materializzano in When my Baby Comes, Kitchenette, Heaten Child, gli altri salienti episodi del disco: i quasi sette minuti di "When my Baby Comes" recitano lo stesso copione di Mickey Mouse…; la toccante cantilena blues trasversale di Cave si sublima nella lenta ascesa della viola/violino di Warren Ellis (non si udiranno più nel corso del disco), una mini-
sinfonia lisergica alla moviola dal sapore di soundtrack, forse fatale retaggio del massiccio lavoro compiuto in tal senso dai due artisti negli ultimi anni.
Il blues trasfigurato in sermone pagano ed il gospel laico (molto più che nel primo lavoro), cui Cave ci fece avvezzi in dischi come "Firstborn Is Dead" e "Tender Prey" ritornano distillati e ristretti, più efficaci e lirici in Kitchenette (strisciante e sordida), Evil ed Heathen Child.
Bellringer Blues è un mantra iper-elettrico affogato in un infetto magma di suoni inaciditi.
Gli unici brani piuttosto radio-friendly sono Worm Tamer melodicamente affascinante e l’accattivante Palaces of Montezuma, un altro gospel vicino alle atmosfere di "Abattoir Blues".
Grinderman 2, un lasciapassare per gli abissi: da maneggiarsi con cautela e tener lontano da sguardi ortodossi.
(La mia recensione di Grinderman, 2007)
Mickey Mouse And the Goodbye Man
When My Baby Comes
Kitchenette
Palaces of Montezuma
Bellringer Blues
sito ufficiale: http://www.grinderman.com/
La novità vera del primo capitolo erano stati i suoni e "Grinderman 2" conferma questa direzione. Sin dall’iniziale Mickey Mouse and the Goodbye Man: dopo un intro dolcissima, basso e batteria martellanti riportano implacabilmente agli incubi ‘festa di compleanno’ di "Junkyard" e "Prayers on Fire" mentre Nick Cave si lancia nei suoi vaticini dolorosi; una cesura indolore divide questi quasi 6 minuti in due parti.
Grinderman continuano ad essere serialmente Warren Ellis oltre Cave: nella seconda parte di Mickey Mouse and the Goodbye Man la voce di Cave va a liquefarsi in una stratificazione di suoni prodotti dal polistrumentista, Honher Guitaret, Fendocaster, Electric Bouzouki, tastiere ‘trattate’ sono gli aggeggi di cui si serve insieme allo stesso Cave per continuare ad esplorare una psichedelia aliena che afferra e violenta sadicamente, con improvvise mazzate timbriche di provenienza non ben identificata, folate chitarristiche a temperature d’altoforno e gemiti tastieristici.
Il lupo in copertina, lo stesso che si aggira furtivamente minaccioso nell’homepage dei Grinderman è efficace cassandra dei gironi infernali che si materializzano in When my Baby Comes, Kitchenette, Heaten Child, gli altri salienti episodi del disco: i quasi sette minuti di "When my Baby Comes" recitano lo stesso copione di Mickey Mouse…; la toccante cantilena blues trasversale di Cave si sublima nella lenta ascesa della viola/violino di Warren Ellis (non si udiranno più nel corso del disco), una mini-
sinfonia lisergica alla moviola dal sapore di soundtrack, forse fatale retaggio del massiccio lavoro compiuto in tal senso dai due artisti negli ultimi anni.
Il blues trasfigurato in sermone pagano ed il gospel laico (molto più che nel primo lavoro), cui Cave ci fece avvezzi in dischi come "Firstborn Is Dead" e "Tender Prey" ritornano distillati e ristretti, più efficaci e lirici in Kitchenette (strisciante e sordida), Evil ed Heathen Child.
Bellringer Blues è un mantra iper-elettrico affogato in un infetto magma di suoni inaciditi.
Gli unici brani piuttosto radio-friendly sono Worm Tamer melodicamente affascinante e l’accattivante Palaces of Montezuma, un altro gospel vicino alle atmosfere di "Abattoir Blues".
Grinderman 2, un lasciapassare per gli abissi: da maneggiarsi con cautela e tener lontano da sguardi ortodossi.
(La mia recensione di Grinderman, 2007)
Wally Boff
videoMickey Mouse And the Goodbye Man
When My Baby Comes
Kitchenette
Palaces of Montezuma
Bellringer Blues
sito ufficiale: http://www.grinderman.com/